Cultura rurale e assistenzialismo

DC Sardegna, febbraio 1991

 

La stagione del Bilancio rischia di riproporre puntualmente, tutti gli anni, un già sperimentato rituale di rivendicazioni all’interno dei diversi comparti della nostra debole economia.
Il lenzuolo delle risorse regionali subirà i soliti energici strattoni.
Il settore agricolo più di tutti ha motivo di essere protagonista di questo esercizio.
Sarà forse utile mettere in discussione alcune inveterate consuetudini. E prima di tutte quella che tende a privilegiare le risorse rispetto alle politiche.

Se fosse sempre dimostrata l’equazione: più risorse = maggiore sviluppo, la Sardegna dovrebbe oggi assomigliare ad una piccola California: un Eldorado agricolo. Ma, per nostra cattiva sorte, così non è.
Facciamo un po’ di conti. Otto anni fa, nel 1982, il bilancio dell’Assessorato all’agricoltura assorbiva poco meno del dieci per cento (9,7%) delle risorse complessive del bilancio regionale; sette anni dopo, nel 1989, la quota parte era già quasi raddoppiata (18,4%).

Raffrontando le risorse finanziare a disposizione di questo settore con il valore aggiunto del comparto si ottengono risultati ancora più interessanti: nel 1983 le risorse del bilancio assegnate all‘Assessorato dell’agricoltura ammontavano a 406 miliardi contro i 1.072 miliardi del valore aggiunto nel settore con una percentuale del 37,8%; nel 1988 si era ormai passati rispettivamente a 1.158 miliardi contro i 1.080, con una percentuale che aveva raggiunto il 107,2%. Nei due anni successivi questo trend si è invertito in misura assai modesta.

Queste cifre dimostrano dunque un fatto inequivocabile. Le risorse pubbliche destinate al settore si sono quasi triplicate, mentre la produttività è rimasta pressoché invariata, poiché il valore aggiunto al costo dei fattori è cresciuto soltanto di 8 miliardi.

La protesta degli addetti all’agricoltura di questi ultimi mesi e le statistiche pongono allora una serie di problemi da approfondire. Il primo riguarda la condizione di crisi del settore agricolo, contro la quale gli stessi agricoltori si battono. L seconda questione concerne l’inefficienza del settore. Un terzo punto è quello della legislazione dell’emergenza, che ha fatto lievitare gli interventi finanziari senza alcun apprezzabile concreto risultato.

Per quanto riguarda la prima questione non occorrono troppe parole per prendere coscienza di un fatto che è davanti agli occhi di tutti. Che la Sardegna sia dipendente dall’esterno anche nel settore agro-zootecnico dimostra quanto ci sia ancora da fare per il rilancio del comparto. Hanno ragione gli operatori a rivendicare interventi, ma questi non necessariamente devono essere ripetitivi dei moduli finora sperimentati.

Si passa così al secondo problema. Non si può nascondere che gli “investimenti” regionali in questo comparto hanno dato scarsi benefici. L’agricoltura sarda soffre infatti di un malessere strutturale che ha radici profonde. Sistemi produttivi, efficienza aziendale, ricerca e sperimentazione, commercializzazione sono i tanti aspetti di una questione che deve rapidamente essere affrontata con realismo. Tutti questi nodi chiamano in causa, in buona sostanza, la gestione complessiva del settore agricolo sardo, un’idrovora di risorse pubbliche senza adeguate contropartite produttive.

Ciò non significa che debbano venire a mancare i necessari sostegni della mano pubblica, dato che in una regione strutturalmente svantaggiata ogni comparto economico ha necessità di adeguate incentivazioni. Semmai, e siamo così al terzo aspetto della questione, si tratta di riuscire a coniugare le politiche di assistenza e di sostegno con l’efficienza e la competitività: Ma per fare questo è necessaria una strategia di lungo periodo.

Esiste una questione di gradualità direttamente connessa alla troppo lunga pratica di una politica assistenziale. Essa ha originato una autentica “cultura dell’assistenza” ed ha impedito una diffusa crescita di imprenditorialità. La strada per lo sviluppo, come dimostrano le cifre iniziali, passa inderogabilmente per un aumento di produttività. Gli ultimi Otto anni hanno fatto segnare una tendenza che deve assolutamente essere invertita: ecco perché occorre puntare alla ricerca, ai servizi, alla commercializzazione.

E’ d’altronde indispensabile una seria politica di programmazione che significa selezione delle aree più adatte, differenziazione dei sostegni pubblici, integrazione con sistema agro-industriale.
Tutto ciò presenta però un rischio, che non deve essere sottovalutato. La ricerca dell’efficienza produttiva e la selezione naturale che ne conseguirebbe portano con sé il pericolo di privilegiare certe aree a danno ed a scapito di altre, meno avvantaggiate naturalmente. Proprio quelle, tuttavia, che hanno alimentato la cultura agro pastorale della Sardegna, e hanno forgiato l’identità specifica della nostra Isola, Un’identità che rischia l’estinzione se la dinamica demografica e quella dello sviluppo seguiranno l’attuale progressione.

La strategia politica di modernizzazione e di ristrutturazione del settore agricolo deve quindi puntare alla salvaguardia della “cultura della ruralità”, anche nelle aree più marginali. Quelle che da un punto di vista strettamente economicistico e produttivistico, verrebbero inesorabilmente tagliate fuori dal processo di modernizzazione produttiva.
E’ un’operazione non facile, ma rappresenta un appuntamento ineludibile per le forze politiche sarde.
Ma intanto è possibile un più largo intervento in quelle attività di servizio collegate con la difesa dell’ambiente e la valorizzazione dei beni culturali che siano suscettibili di più diretta integrazione con le comunità rurali?

In questa direzione sarà utile aprire un confronto e una verifica delle politiche regionali.

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