Una “legge di rinascita” attesa per 10 anni

Camera dei Deputati, 15 giugno 1994

Ci vollero tre legislature perché il Parlamento approvasse, nel ’94, una serie di interventi organici a sostegno dello sviluppo della Sardegna. Ma il cammino per un vero affrancamento resta ancora lungo e in salita.

 

Il Senato esamina in questi giorni la “legge di Rinascita” recentemente votata dalla Camera dei Deputati.
Una legge che viene da lontano.
La lunghissima gestazione – 10 anni, tre legislature, in una esasperante teoria di emendamenti e di rinvii – testimonia plasticamente dei limiti di una democrazia inefficiente.
E gli anni non sono stati una variabile indifferente rispetto all’esito del provvedimento perché ne hanno di fatto e in misura consistente ridotto la dimensione finanziaria, ma soprattutto, perché ne hanno condizionato la portata istituzionale riducendola ad un puro trasferimento di risorse, dentro una cornice programmatoria sostanzialmente conservativa delle categorie di intervento preesistenti.
Ma questa legge viene da lontano perché attua per la terza volta l’art. 13 dello Statuto speciale della Sardegna, che ha il rango di legge costituzionale.
E questo fatto, questa dimensione alta, questo originare della norma costituzionale della legge di Rinascita non appartiene ad una dimensione accademica, non ha interesse per gli esperti del diritto regionale ma appartiene in profondità al vissuto dell’Autonomia regionale sarda.
Investe nel divenire della coscienza autonomistica, della partecipazione dei sardi alla vita nazionale, la qualità del rapporto, del patto di reciproca affezione tra Stato e Regione.
Il Parlamento approva questa legge in un momento in cui più forte si sviluppa il confronto intorno al nuovo regionalismo nell’orizzonte dello Stato federale.
Credo non possa sfuggire, dentro questo dibattito, il problema delle regioni a statuto speciale e l’ambizione che esse hanno di conservare i caratteri di una peculiarità non formale, non nominale dentro l’ordinamento dello Stato autonomistico.
E la specialità si sostanzia nella qualità della relazione Stato/Regione, nella dignità che reciprocamente si riconosce alle ragioni storiche, culturali, economiche, etniche di una partecipazione al processo unitario che non sia un’omologazione né separazione.
Quando cedono questi caratteri di reciproca affidabilità in qualche modo si logora un vincolo, si minaccia un sentimento di comunione che ha sede nella coscienza popolare.
In questo orizzonte va interpretato il cammino faticoso, non sempre lineare, non sempre positivo dell’Autonomia regionale sarda per coniugare la definizione e l’attuazione dei suoi poteri con l’uso sapiente degli stessi e delle risorse che lo Stato ha trasferito.
Ma va detto che 45 anni di vita autonomistica hanno trasformato profondamente le condizioni economiche e sociali dell’Isola.
Si è passati da una economia arcaica, in alcune zone omerica per le sue caratteristiche di architettura sociale, alle attuali condizioni di progressiva integrazione nelle funzioni di una moderna economia che vuole competere nel mercato dell’Europa e del Mediterraneo.
E tuttavia questa volontà di competizione è come frenata dal permanere di antichi vincoli e di nuove debolezze.
Resistono ragioni strutturali di svantaggio che rendono meno convenienti gli investimenti in Sardegna e che ritardano un processo di accumulazione endogena.
Sono svantaggi in larga misura connessi all’insularità e principalmente riguardano il problema dei trasporti.
Ma sono – e contano di più – ritardi nella connessione alle grandi reti di comunicazione e di approvvigionamento energetico.
Queste ragioni strutturali si intrecciano con la congiuntura della crisi che ha investito il nostro Paese negli ultimi anni.
Nel 1993 gli investimenti hanno registrato un saldo vistosamente negativo, il tasso di crescita del PIL è stato inferiore di 1 punto rispetto a quello già negativo dell’economia nazionale.
La disoccupazione interessa duecentomila giovani e proietta lo spettro di una povertà sconosciuta in larghe fasce di popolazione finora protette da un sistema di ammortizzatori sociali che la civiltà contadina assicura assai prima dello Stato sociale.
Il sistema industriale somma la crisi del vecchio apparato, in larga misura generato e governato dalle PP. SS. e, insieme, le sofferenze di una nuova e diffusa generazione di piccoli imprenditori che avevano confidato nell’intervento straordinario. Non sorprende che il V. A. nel settore industriale sia diminuito del 2,5%.
Il comparto agricolo sconta gli effetti di un peso eccessivo di addetti che si traduce in una drammatica espulsione di lavoratori occupati e sotto occupati, in una crisi aggravata dai vincoli che la nuova politica comunitaria inesorabilmente va producendo.
E tuttavia sbagliano quanti si abbandonano, in questa fase di elogio maniacale del nuovo, ad una chiusura radicale del “modello di sviluppo” praticato in Sardegna in un indistinto passato.
Non esiste un anno zero per la nostra economia e per la nostra Regione.
Oggi però è matura la consapevolezza di un nuovo corso della programmazione sarda: che punti a superare il ritardo di sviluppo, a coniugare la crescita economica con la difesa ed esaltazione della propria identità ambientale e culturale, in uno schema di economia integrata che punta sull’innovazione e sulla ricerca, che affida al giovane tessuto di piccole e medie imprese il compito di guidare l’ammodernamento dell’apparato produttivo.
La Sardegna vuole trovare in sé le ragioni del proprio sviluppo ma questo non può cancellare gli obblighi dello Stato: obblighi di concorso e non di assistenza, di comune responsabilità e non di tutela di una minorità.
La legge di Rinascita rappresenta un contributo – in verità insufficiente – nella direzione del concorso previsto dall’art. 13 dello Statuto speciale sardo.
Sarebbero certamente possibili integrazioni e, per alcune parti, modifiche profonde.
Ma questo testo è il punto di sintesi di un confronto parlamentare lunghissimo: l’esercizio dell’emendamento ha scandito tempi interminabili del precedente confronto, incompatibili con una democrazia efficiente.
Per queste ragioni non gioverebbe un ulteriore modificazione da parte del Senato.

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