La politica non è uno spot

La Camera vara le nuove regole per la propaganda politica in tv. Da giorni il clima è infuocato. Il 26 gennaio, nella piazza di Montecitorio, il segretario del Ppi Castagnetti è stato aggredito da militanti di Forza Italia che da giorni manifestano contro la legge che il loro leader chiama “liberticida”. Berlusconi minaccia di bloccare tutte le riforme istituzionali. I suoi parlano di “colpo di Stato”. In Aula, segnali di intesa tra Polo e Lega: l’intervento di Bossi, fortemente contrario alla legge, è spesso interrotto dagli applausi dei rappresentanti di An e Forza Italia.
Camera dei Deputati, 3/2/2000

Voteremo a favore di questa legge, con la serena consapevolezza di aver concorso ad allargare il diritto di cittadinanza degli italiani. Lo abbiamo fatto nel rispetto delle regole che presiedono a questo libero Parlamento, rifiutando e respingendo il clima e i toni di una rissa verbale che spesso abbiamo avvertito come ingiusta violenza.
Noi sappiamo che questo clima ha molto a che vedere con la grande anomalia italiana, quel conflitto di interessi per cui una stessa persona assume in sé il titolo di capo di uno schieramento politico e di proprietario della più grande azienda radiotelevisiva del nostro paese; una mostruosità che non esiste in nessuno Stato al mondo.
Tuttavia, vogliamo separare le due questioni: ci sentiamo impegnati a risolvere in modo serio e rigoroso, attraverso una legge del Parlamento, il conflitto di interessi, ma oggi votiamo una legge che ha fondamento e valore autonomi, perché risponde alla domanda di eguaglianza che viene dai cittadini italiani, per aggiornare le leggi ai cambiamenti intervenuti nella nostra società, nelle abitudini di vita di tutti noi.
Nessuno può negare che l’orientamento elettorale nel nostro tempo è fortemente influenzato dalla comunicazione radiotelevisiva. Sappiamo che quattro italiani su dieci ricevono informazioni esclusivamente attraverso la televisione, mentre gli altri sei ne sono comunque fortemente condizionati.

La grande piazza mediatica ha sostituito la vecchia piazza dei comizi, più o meno felicemente confinati nella memoria dei meno giovani. Alla nuova piazza si accede in Italia attraverso due soli balconi, due finestre: uno è il balcone del servizio pubblico, governato da una commissione parlamentare di Vigilanza presieduta da un uomo dell’opposizione. L’altro balcone dal quale si accede alla piazza mediatica è proprietà di un privato, al quale occorre chiedere il permesso, pagando, per averne la disponibilità, a discrezione del proprietario.
Noi pensiamo che sia assolutamente indispensabile disciplinare questo sistema, trovare una regola. Vogliamo che sia garantita a tutti, proprio a tutti gli italiani, in egual misura e tendenzialmente a titolo gratuito, la possibilità di affacciarsi al balcone di questa moderna piazza mediatica, perché ognuno possa far conoscere le sue idee e i suoi programmi.
Sarebbe incomprensibile – credo che nessuno davvero lo capirebbe – dover selezionare in qualche modo l’accesso a questa piazza, a questo balcone, a questa finestra, vagliando le richieste secondo una regola non paritaria. Sarebbe ancora più incomprensibile l’idea di conservare in modo esclusivo i vincoli, gli obblighi, le condizioni esistenti in Italia da cinquant’anni per i vecchi strumenti della propaganda elettorale, quali i manifesti murali, e negarli per gli strumenti più moderni della comunicazione radiotelevisiva.
È questa una pretesa illiberale, un colpo di Stato (come ha detto l’infelice senatore La Loggia), un rigurgito statalista e stalinista?
In questi giorni abbiamo ascoltato con rispetto le amenità dell’onorevole Armaroli e le improbabili argomentazioni dei molti lettori di interventi in fotocopia, ma anche gli argomenti di chi ha difeso, con sincera passione, la richiesta di conservare l’attuale regime. Non abbiamo colto però al di là delle parole, delle suggestioni e delle polemiche, la volontà di un accordo vero.
Quando l’onorevole Berlusconi eccita gli animi dei suoi, dicendo che si vuole togliere la parola all’opposizione, di fatto confessa che oggi l’opposizione gode di un vantaggio indebito.
Avete cercato di presentare agli italiani questa legge come un atto di rapina, un esproprio di beni privati, un’indebita imposizione di vincoli e costrizioni alla libertà di impresa. In particolare, più di uno ha ripetuto che l’obbligo di favorire l’informazione, il confronto e il contraddittorio, imposto alle reti private, è un atto di violenza statalista, un bavaglio all’opposizione e un esproprio per il leader della stessa.
Vorrei sommessamente ricordare che la concessione delle frequenze non è un’eredità che l’onorevole Berlusconi ha ricevuto dai nonni, ma nasce da un preciso rapporto giuridico tra l’amministrazione dello Stato e il concessionario: questo rapporto comporta diritti e doveri, opportunità, ma anche obblighi. Pensiamo che allargare gli spazi di informazione e favorire la partecipazione consapevole degli italiani sia un obbligo ineludibile.
Si è posta, da parte di molti, una questione di libertà. Noi Popolari, che abbiamo consuetudine non recente con l’idea di libertà e di democrazia, valori che non abbiamo scoperto negli ultimi tempi, sappiamo che la libertà di informare e di essere informati si esercita all’interno di una regola. La mancanza di regole consente la libertà solo ai più forti e l’ineguaglianza nella comunicazione delle idee altera in profondità il meccanismo democratico. Per questo sentiamo che è giusto sostenere questa legge.
Ci siamo divisi, inoltre, su un altro aspetto non secondario. Abbiamo scelto un modello che propone più informazione e meno spot, meno pubblicità. Esattamente come avviene in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna e in Germania, paesi che non sono annoverati tra i più illiberali del nostro pianeta. Pensiamo che l’informazione stia alla politica come la pubblicità sta al commercio. La pubblicità è la forma più adatta per cogliere l’umore, sollecitare la simpatia, evocare suggestioni, acquisire consumatori, ma non per favorire la consapevolezza e la critica, il paragone e il confronto, la percezione delle differenze.
Nello spot manca il contraddittorio. Lo spot rende possibile l’equivoco, l’illusione e le bugie. Può accadere che taluno si proponga come alfiere della civiltà dell’amore e, senza alcun affanno, approvi nello stesso giorno il voto di una mozione di solidarietà per Jorg Haider, il leader austriaco della xenofobia. Per noi il cittadino di una democrazia non virtuale è titolare di un diritto di scelta e non oggetto di una campagna pubblicitaria, un consumatore da imbonire. Il Governo delle istituzioni non è un detersivo!
Da questa concezione non commerciale della democrazia deriva la scelta di approvare una legge che allinea l’Italia alle principali democrazie europee anche in questo campo. Ma esiste un aspetto che mi pare sottovalutato in questo dibattito. Questa legge, introducendo la gratuità dei messaggi nelle TV nazionali, sia in quelle del servizio pubblico sia in quelle in concessione, diventa un serio, concreto, efficace strumento per ridurre i costi della politica e quindi elimina una pericolosa distorsione che rischia di crescere nella nostra vita pubblica: quella che per fare politica sia necessario spendere miliardi e miliardi per le campagne elettorali.
Contenere i costi della politica serve assai più di molte gride manzoniane per affrontare la questione morale e per battere la corruzione.
In questi mesi il Polo ha rinunciato a proporre un modello alternativo a quello del governo: ha oscillato tra la polemica gridata sopra le righe con parole pesanti e poco meditate e la richiesta di un blocco della vita parlamentare ordinaria, l’ostruzionismo, la minaccia di più gravi rotture. Ora viene annunciato un ricorso al Capo dello Stato e viene effettuata una pressione che noi consideriamo irrituale e indebita. Ma noi abbiamo fiducia nel Capo dello Stato, abbiamo fiducia nella Corte costituzionale, in tutti i presidi della democrazia italiana ed abbiamo fiducia nelle nostre ragioni. Noi, però – e questa è la differenza -, non rovesceremmo mai il tavolo del gioco politico e parlamentare quando dovessimo perdere perché non è nel nostro codice genetico un’idea proprietaria delle istituzioni. Sarebbe molto bello se in Italia anche l’opposizione accettasse questo costume e questo stile.

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