L’insularità, ragione storica di etnia, cultura, lingua, ambiente, ma anche di “isolamento e diseconomia”, assume un rilievo primario per definire il ruolo e le ambizioni di sviluppo della Sardegna all’interno dello Stato su base federale. Facendo attenzione a che la spinta autonomista non si esaurisca in una mera frammentazione dei centri decisionali, a discapito delle vere esigenze della collettività.
L’Unione Sarda, 19/01/2002
Qualche giorno fa, (l’Unione Sarda, 8 gennaio), riflettendo sulla controversa riforma della scuola, Silvano Tagliagambe si poneva un quesito che è anche un timore: se cioè non stia emergendo “il rischio concreto della frantumazione del nostro sistema scolastico nazionale in tanti sistemi scolastici locali quante sono le nostre regioni”. Il tutto con le rivendicazioni di molte regioni del Nord e del Centro – anche di schieramenti contrapposti – per poter essere “protagoniste delle politiche scolastiche anche con scelte di carattere culturale e programmatorio”.
È evidente che non sarà un parlamentare eletto in Sardegna, in una regione genitrice e culla del pensiero autonomistico e federalistico, a voler mettere in discussione il valore della cultura e delle storie, perfino delle microstorie locali. Ma il dubbio esternato dal Prof. Tagliagambe non può riguardare solo il mondo dell’istruzione ma deve – per la valenza della posta in gioco – stimolare una più generale riflessione.
Perché dalla polverizzazione dei sistemi scolastici si può passare alla molecolarizzazione delle scelte politiche, di ogni scelta politica, dove la parte si erige a leader soppiantando il tutto ed impedendo quindi di ragionare a 360 gradi, soprattutto in un periodo dove la realtà si chiama globalizzazione e i processi di omologazione devastano il carattere visibile delle identità preesistenti.
Ecco perché ritengo decisamente importante il convegno promosso da Pietro Soddu sul tema della “specialità sarda nella repubblica federale”. Un dibattito necessario e urgente. Spero serva – entrando nel merito delle questioni – ad interrompere la gara, talvolta scomposta, per stabilire chi è il più autonomista del reame. Ciò mentre altrove (anche nelle regioni a statuto ordinario, oggi molto più “speciali” e decisioniste di noi isolani) si cammina su percorsi meno tortuosi, politicamente più moderni. Può la nostra Autonomia essere ancora quella pensata sul Carso? Può essere ancora quella dell’immediato dopoguerra o dei primi decenni dopo la istituzione della Regione “autonoma” della Sardegna?
Nella Repubblica federale quale deve essere la qualità della nostra specialità? Oggi in Sardegna assistiamo alla speciale “frantumazione” delle decisioni in ogni settore della vita politica. Non solo fra gruppi e partiti, ma anche al loro interno. Hanno spazio gli egoismi mentre vengono chiuse le porte alla dimensione comunitaria. E in questo non vincente tiro alla fune si rafforza la convinzione tutta sarda che essere speciali paghi più di essere normali. È corretta questa strategia? Esiste un’incredibile dissociazione tra la rivendicazione di poteri e l’uso degli stessi. E non mi riferisco solo all’esasperante lentezza della spesa in Sardegna, regione piena di problemi (e di denari) ma capace di far incancrenire i primi e ammuffire i secondi.
È evidente la sfiducia della politica sarda nei confronti dell’attuale assetto istituzionale. Eppure l’estensione dei poteri automistici attraverso la recente riforma della Costituzione supera la domanda strutturata delle istituzioni sarde. A voler censire con rigore le indicazioni fornite in questi anni dal Consiglio regionale, a voler rileggere le dichiarazioni programmatiche delle ultime Giunte regionali, non emergono aspirazioni a precise forme di autogoverno che non trovino nella riforma una risposta esaustiva.
Esiste una domanda più profonda, più o meno consapevole, nella società sarda che non trova eco nel Consiglio regionale? E questa domanda è un aspetto emotivo, scoria indigerita della vecchia coscienza infelice presente nel popolo sardo? E in quanto tale non riducibile ad un complesso sistematico di equilibri istituzionali ma piuttosto riassumibile come domanda politica di più diffusi diritti, a partire da quello di cittadinanza? Oppure questa domanda non canalizzata dalle istituzioni è domanda di una compensazione della nostra peculiarità oggettiva (da nessuno contestabile) e cioè della insularità?
Nell’ultimo decennio la domanda federalista in Italia è venuta dalle regioni del Nord e si è nutrita di una cultura poco incline alla solidarietà. Temo venga sottovalutato il rischio di una fiscalità territoriale implicita nelle ambizioni del nuovo regime di “specialità differenziate” e del conseguente esaurimento della funzione perequatrice dello Stato. Per la Sardegna significherebbe la fine dell’equazione più poteri uguale più risorse. E allora forse occorre ridefinire il fondamento della specialità sarda: che è prima di tutto insularità, ragione storica di etnia, cultura, lingua, ambiente, ecc. ma anche di “isolamento e diseconomia”.
È forse tempo di accentuare questo profilo della nostra rivendicazione per cogliere le opportunità di un riconoscimento che, in questo secolo globale, le istituzioni internazionali (non solo l’Unione Europea) riconoscono (e finanziano). Perché credo che nella Repubblica federale lo sviluppo non si ottiene senza risorse. E senza risorse i poteri sarebbero speciali ma non reali.
Ma non bastano solo poteri e risorse per rispondere alla domanda che si coglie al fondo del malessere di questa società. C’è bisogno di saldare, in un ordito persuasivo gli interessi e la consapevolezza dei diritti con la rappresentanza della politica.
Costruire un progetto, quindi, una prospettiva generale di crescita nella quale i sardi si riconoscano e rispetto alla quale l’ordinamento sia funzionale e non viceversa. Perché l’identità cessi di essere coscienza infelice e diventi speranza condivisa.