Quotidiani AGL Espresso, 01/06/2008
La “convenzione” tra governo e banche sui mutui ha ottenuto il suo ricercato e costruito effetto comunicativo. La prima impressione dei consumatori all’annuncio del ministro dell’Economia non poteva che essere di lieta sorpresa: finalmente un governo che ha il coraggio di imporre l’equità alle banche, finalmente un governo che costringe le banche a compiere passi consistenti in direzione dei cittadini. Le banche in Italia, lo dicono tutte le indagini e le agenzie di rilevazione, non godono di un’alta considerazione, battono persino i partiti nella classifica della sfiducia. Dunque, se uno dei primi provvedimenti del nuovo governo prende di mira l’inviso sistema bancario e lo costringe all’equità, si comincia con il piede giusto.
La realtà, però, è molto diversa dalla prima impressione.
Quella che sembrava la mossa del cavallo, il coniglio dal cilindro, ad un’analisi più attenta si è rivelata una voluminosa bolla di sapone.
Ci sono diversi piani per valutare la decisione presa dal Governo sui mutui di concerto con l’Abi. Uno è tecnico, analizza e misura il possibile beneficio per il cliente che decide la rinegoziazione con la banca, un altro, più generale, è una valutazione sugli effetti di questa decisone rispetto ai comportamenti dei cittadini.
La proposta del governo, in concreto, consiste nel garantire al contraente di un mutuo a tasso variabile un beneficio immediato in cambio di un maggiore onere futuro. E’ bene chiarire che non c’è alcuno“sconto” reale sulle rate da pagare. Del resto, non sarebbe stato verosimile che il volenteroso ministro Tremonti avesse persuaso le banche ad andare contro il proprio fine che è pur sempre quello della massimizzazione degli utili.
C’è poi da dire che il meccanismo escogitato è invero alquanto macchinoso. Quello che il cliente della banca non paga oggi per la trasformazione della retta da variabile in fissa va a costituire un altro conto che funge quindi da prestito parallelo, un “prestito ponte”, si potrebbe dire con una locuzione oggi di moda, che in quanto prestito non sarebbe esente dagli interessi. E’ vero: questi interessi sono calmierati verso il minimo ma l’intera l’operazione non è senza costi. Facendo, infatti, una simulazione a tassi d’interesse costanti, il periodo di restituzione del mutuo si allunga di un anno e mezzo per un mutuo di 100.000 euro a dieci anni, di due anni e mezzo per un mutuo della stessa cifra a 15 anni, di ben 5 anni per un mutuo dello stesso importo di durata ventennale 20 .Non è proprio quello che una persona di buon senso chiamerebbe un affare. Da ultimo, giova ricordare che non ci sarebbe stato alcun bisogno di inventarsi un simile marchingegno. Chi vuole rinegoziare un mutuo a tasso e rata variabile con uno a rata fissa ma a scadenza variabile, oggi lo può già fare, glielo consente l’attuale legislazione e le banche non possono negarglielo.
La valutazione finale della convenzione Tremonti è quindi quella di un provvedimento, che pur contenendo elementi di equità, sostanzialmente non incide sulle cause strutturali che hanno portato all’esplosione dei mutui.
Il nostro parere è quindi ben diverso: i mutui si riducono con la concorrenza, non con la convenzione. Sappiamo che la parola concorrenza suona stridente alle orecchie di Tremonti che ha coniato il concetto, invero assai oscuro, di “mercatismo”, ma noi non sappiamo individuare altro fronte. La concorrenza è per noi strada più affidabile, quella su cui avevamo già indirizzato i decreti Bersani del precedente Governo.
Infatti, solo promuovendo la concorrenza tra le banche è possibile ridurre il differenziale tra il costo base del denaro, quello che anche le banche pagano, e il guadagno reale della banca.
Solo mettendo le banche in concorrenza tra loro sullo spread, ovvero sul margine di guadagno, è possibile generare quel processo virtuoso in grado di invertire con buone probabilità la tendenza al rialzo.
Il guaio generato dalla convenzione è allora non tanto sul piano tecnico, per cui non rappresenta una soluzione né innovativa né rivoluzionaria, ma sul piano culturale.
Gli italiani hanno bisogno di scommettere sulla concorrenza e non sulla protezione, hanno bisogno di essere educati alla scelta tra un gestore e un altro e non vanno incentivati a restare con lo stesso gestore, magari per qualche anno in più, come comporta la convenzione.
Il nostro timore è che una simile iniziativa sia stata dettata ancora una volta dall’insostenibile tendenza a conservare un sistema in cui la concorrenza fa paura. La nostra idea è che in un mondo che si è messo a correre, e quindi a concorrere, questa paura davvero non ci porterà lontano.