Roma, 14/09/2009
«Potere esecutivo e potere legislativo, potere esecutivo e potere dell’informazione: è nel giusto rapporto tra questi poteri che si riconosce una democrazia stabile, forte, vitale. Risiede in questo snodo il punto più acuto dello scontro politico nel nostro paese. Per questo assume un valore straordinario il richiamo del Presidente della Repubblica in occasione dell’incontro tra i Presidenti delle Assemblee parlamentari del G8. In quella occasione, Napolitano ha pronunciato parole nette circa il “ruolo insostituibile” dei parlamenti e circa la necessità di un rapporto equilibrato e non subalterno tra potere esecutivo e potere legislativo.
E’ di questi giorni la grave ingerenza che ha determinato, con un atto d’imperio non giustificato, lo stravolgimento dell’agenda di un palinsesto del servizio pubblico televisivo. L’obiettivo è evidente: impedire una qualsivoglia espressione critica rispetto all’imperante racconto agiografico delle gesta del Cavaliere. Un modo esplicito di scoraggiare e intimidire le voci discordanti. Dopo le molte pressioni dei mesi scorsi, dopo le querele a “Repubblica” e all’Unità, dopo gli avvertimenti clamorosamente riassunti nel caso Boffo, ancora un atto d’imperio che umilia l’informazione e con essa la democrazia.
Berlusconi dimostra di essere intollerante per qualsiasi messaggio che appaia divergente, non allineato con la sua realtà divulgata, con l’informazione che il governo produce: ma in questa durezza esibita, in queste ricorrenti prove muscolari, si può intuire la sua debolezza reale, la consapevolezza di un declino iniziato, la solitudine di un uomo che vive nel bunker.
Per questa ragione abbiamo il dovere di una riflessione serena e partecipata intorno al tema della democrazia. E anche per questa ragione è un dovere democratico aderire alla manifestazione per la libertà di informazione.
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Nel Novecento il mondo ha sperimentato un mutamento politico straordinario e senza precedenti che ha permesso alla liberaldemocrazia di battere i suoi nemici. Mai era accaduto che tanti Stati nel mondo fossero retti da regimi che si definiscono democratici e che i valori democratici fossero così poco contestati
Paradossalmente, nel momento in cui conosce i suoi maggiori trionfi, la democrazia appare tutt’altro che in buona salute, i suoi meccanismi inceppati, usurati. Cala la partecipazione alla vita politica, cresce l’astensionismo alle elezioni, si ferma il ricambio delle classi dirigenti, si diffondono i brogli elettorali e i casi di corruzione, crescono i consensi delle formazioni politiche xenofobe e antisistema. Il pericolo di un’involuzione negli ordinamenti investiti dalla grande “ondata di democratizzazione” lambisce non solo le giovani democrazie ma anche i sistemi più consolidati.
E’ un fenomeno preoccupante che non conosce confini, le cui conseguenze finiscono per travolgere i luoghi deputati all’esercizio e alla pratica della democrazia: i Parlamenti e in primis i partiti politici.
Alain Touraine parla di fine della politica tradizionale intesa come quella capace di controllare l’economia e di avere il controllo della società che si è, nel frattempo, de-istituzionalizzata. Ciò che è accaduto, dice Touraine, è che da un lato c’è un sistema economico fuori controllo e, dall’altro, un individuo sempre più isolato e abbandonato a se stesso.
C’è un punto cruciale però sul quale è bene riflettere, quando parliamo di democrazia, il modello di riferimento non è più quello della democrazia diretta dell’Atene del V secolo a. C., oggi usiamo questo termine come sinonimo di democrazia liberale. Ossia facciamo riferimento a un sistema politico che si è formato nel corso della storia dal connubio con il liberalismo, combinando il principio di sovranità popolare con la tutela dei diritti liberali e con la divisione dei poteri indicata nel XVIII secolo da Montesquieu.
Nel processo di degrado delle democrazie i governi tendono programmaticamente a indebolire il ruolo e il peso dei parlamenti e l’efficacia dell’azione della magistratura, che si vuole ricondurre sotto il controllo dell’esecutivo, il quale a sua volta soggiace all’influenza delle élites del potere finanziario e industriale.
Nel nostro Paese questo quadro è aggravato dal conflitto di interessi: quando un imprenditore, tra i più ricchi e potenti del mondo, fonda un partito e diventa capo del governo è già una anomalia, ma la cosa diventa inquietante quando ha il controllo delle TV e dei media in genere. E’ quello che è successo nel nostro Paese, tanto da farne un caso nel contesto internazionale, una sorta di democrazia illiberale, come quelle teorizzate da Fareed Zakaria, nel suo libro “Democrazia senza libertà”, dove si combinano elezioni e autoritarismo. Nel suo testo, di qualche anno fa, Zakaria, citava ad esempio la russia di Eltsin, governata a colpi di decreto, ma non credo che sia così un azzardo inserire la nostra democrazia nell’orizzonte geopolitico di quelle democrazie illiberali. oniva
Una importante corrente di pensiero negli Stati Uniti sostiene che in una democrazia “il rischio di oppressione” deriva dalla “maggioranza della comunità”, lo stesso ammonimento di Alexis Tocqueville, che parlava esplicitamente di “tirannia della maggioranza”.
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L’esperienza di governo di Silvio Berlusconi è stata informata al desiderio di imporre al sistema italiano la cifra del proprio temperamento e delle pr0prie ossessioni nel segno di un“decisionismo” assoluto.
Dopo il rifiuto ostentato di una stagione costituente per la riforma della Costituzione,dopo il rifiuto esibito della disponibilità offerta da Veltroni all’inizio di questa legislatura ,il presidente del Consiglio ha imposto un metodo di azione e di formazione delle leggi che snatura gli articoli della Costituzione formale e altera gli istituti della costituzione materiale:a quanti si opponevano a questo “regime” si è replicato con la forza dei numeri.
Il consenso, legittimo, raccolto il giorno delle elezioni è divenuto il passe-partout per superare qualsiasi resistenza.
Vengono in mente le parole profetiche di Noberto Bobbio sulla democrazia dell’applauso: “… Non è un’elezione, è un’investitura. Il Capo che ha ricevuto un’investitura è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua missione… Nella democrazia dell’applauso si esprime l’opinione, il sentimento, lo stato d’animo, emotivo, non del singolo individuo, ma della massa informe che lo trascende… Ma la democrazia è il governo delle leggi non degli uomini…”.
Ma questa è anche la stagione più difficile e buia per il diritto, la “fine delle leggi” come complesso di norme generali e astratte, uguali per tutti. E’ la stagione delle leggi ad personam, dei “Lodi” dal Lodo Schifani al Lodo Alfano, dei condoni per gli evasori. Si rompe il principio di legalità, perché la legge smette di essere uguale per tutti, l’eguaglianza “è essenzialmente la giustizia come rispetto della norma”.
La ricaduta pratica nella vita quotidiana delle nostre istituzioni è nota a tutti: si emana un decreto-legge, si pone la fiducia senza neanche aprire la discussione, in assenza di un qualunque pretesto di ostruzionismo, si porta a ratifica in un’Assemblea parlamentare in cui, visti i numeri dovuti ad una legge elettorale che assegna alle maggioranze una larga prevalenza, tutto ciò si trasforma in una semplice formalità. In via di principio, non abbiamo mai considerato estranea al nostro ordinamento la questione di fiducia e non abbiamo mai considerato un ricorso frequente ai decreti-legge una questione negativa di per sé: è il combinato dei due istituti che sta diventando un tarlo che consuma la natura del Parlamento e del nostro ordinamento democratico.
Tutte le principali leggi approvate (dalle disposizioni sulla sicurezza, alla manovra economica, agli interventi sulla scuola), questo Governo le ha varate con decreto-legge e con ricorso al voto di fiducia in sede di conversione.
Su 94 leggi approvate in questa legislatura solo 9 sono ascrivibili all’iniziativa parlamentare.
Di fatto, si va operando una trasformazione del processo legislativo in contrasto con la Costituzione, un cambio sostanziale, materiale, ma direi in violenza alla Costituzione vigente. Illuminante sulla situazione, l’ultimo decreto anti-crisi.
Il governo impone con una mano la conversione di un primo “provvedimento urgente” infarcito di errori e con l’altra ne presenta un secondo che riscrive quello appena approvato. Come se il Parlamento non esistesse, quando invece avrebbe potuto benissimo provvedere alle correzioni durante l’esame del provvedimento, come è nella logica di un sistema bicamerale.
Riprendere il processo di riforme significa quindi intervenire per razionalizzare il ruolo del Governo in Parlamento ma, contestualmente, affrontare il tema delle garanzie democratiche in un sistema maggioritario. Nessuna democrazia è esente da rischi ma il pericolo di un’involuzione si affronta accettando la sfida del rinnovamento. L’approdo definitivo a una forma di democrazia decidente è pienamente compatibile con il sistema parlamentare. Il governo delle società complesse e globalizzate, come testimoniato dalla recente crisi internazionale, ha bisogno infatti di istituzioni democratiche più forti, per assicurare più trasparenza, più controllo, più contraddittorio.
In questa direzione due sono gli irrinunciabili presupposti politico-istituzionali sui quali si fonda la nostra proposta di riforma costituzionale. Il primo è che qualsiasi ipotesi di revisione costituzionale che incida sulla forma di governo non abbandoni il solco della forma di governo parlamentare. E il secondo, logicamente conseguente al primo, è che ogni ipotesi di rafforzamento dell’Esecutivo all’interno della forma di governo parlamentare passi attraverso un’implementazione dei poteri del Governo o del Presidente del Consiglio e non attraverso il depotenziamento delle funzioni (specie quella di controllo) del Parlamento.
Un’ultima riflessione sul tema del conflitto di interesse, ovvero come proteggersi dal “dispotismo indiretto” che può sorgere dal monopolio del potere della parola senza rinunciare alla libertà di parola? Osserva Nadia Urbinati, nel suo saggio “Lo scettro senza il re”, “se nella democrazia antica la minaccia oligarchica si materializzava nella sospensione del diritto di voto, in quella rappresentativa essa può meglio materializzarsi nella sfera del giudizio, come una forza esorbitante e incontrollabile di formare opinioni, manipolare fonti di informazione, addomesticare la voce critica dei cittadini, con lo scopo finale di deprimere il potere di controllo e rendere la cittadinanza un esercizio di docile passività”.
Attualmente nessuna delle costituzioni occidentali è attrezzata efficacemente per proteggere il diritto dell’informazione e il pluralismo delle fonti di informazione altrettanto quanto lo è con il diritto di voto. Diviene pertanto essenziale difendere sia la libertà di esprimere opinioni che la libertà di essere informati. L’informazione è un bene pubblico come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza). Senza questo potere di controllo le democrazie moderne sono a rischio».