La grande crisi del Parlamento

www.scuoladipolitica.it, 12/04/2011

 

Il prestigio del nostro Parlamento di questi tempi non è al massimo.

Le performances del ministro La Russa,le esibizioni cabarettistiche del premier,piccole e grandi risse verbali,il nomadismo trasformista e spesso mercenario di deputati e senatori altrimenti sconosciuti vengono,nella generale percezione degli italiani (e non solo) associati a scarsa produttività se non proprio a dissoluta ignavia. E questo si verifica in una stagione segnata dalla più grande crisi economica degli ultimi cinquant’anni e da un ribollire di inarrestabili conflitti nel Mediterraneo.

E’ naturale che nel nostro paese diventi più acuto quel generico sentimento di avversione alla politica già largamente diffuso, sia pur in quantità diverse,in tutte le società cosiddette avanzate.

Sappiamo da tempo che a questo sentimento sono riconducibili la mancanza di fiducia nelle istituzioni della nostra democrazia,la delegittimazione della classe politica, il crescente astensionismo elettorale, la crisi della tradizionale forma partito, il successo politico ed elettorale raccolto da eterogenei movimenti neopopulisti. In questa situazione è più difficile trovare il bandolo per un giudizio non stizzito e difensivo o, come più spesso accade, liquidatorio. E tuttavia diventa indispensabile tentare una qualche riflessione.

Penso che l’antipolitica nostrana sia il portato di molte cause: nessuna da sola sufficiente a spiegare il fenomeno ma tutte in diversa misura concorrenti.

Partirei dalla considerazione di una crisi delle assemblee legislative,da molti anni ovunque in difficoltà a sostenere il passo con l’accelerazione di tutti i processi decisionali indotti dalla globalizzazione. I tempi per decidere secondo le procedure e i riti della democrazia parlamentare sono abitualmente troppo lunghi per governare le sfide della finanza,dell’ economia, della scienza non solo per la natura a-democratica di tali poteri ma perché gli stessi hanno di norma una dimensione e una organizzazione sovranazionale a fronte della dimensione nazionale degli Stati. Se poi l’organizzazione dei lavori parlamentari e del processo legislativo è rimasta quella pensata dai padri della repubblica oltre sessant’anni fa, il divario diventa drammatico.

L’attività della Camera, ad esempio, è centrata sull’attività dell’Assemblea ,un luogo in cui, tutte le settimane, seicento deputati dovrebbero votare (molto spesso inconsapevolmente!) centinaia di emendamenti all’articolato di una legge abitualmente a forte carattere specialistico. Il famigerato votificio. Per converso,l’attività delle commissioni (nelle quali sarebbe possibile un lavoro nel segno della reale discussione tra competenti) è relegata nelle ore marginali,in un clima di frettolosi adempimenti e di disarmante incompiutezza. L’inversione dei ruoli con un più frequente ricorso alle funzioni redigente e legislativa delle commissioni sembrerebbe l’uovo di colombo. Nessuno sa spiegare perché questa (nostra) proposta venga da anni ignorata.

D’altra parte nessuna seria riforma delle regole può avere luogo in questo clima di scontro permanente,figlio di una degenerazione muscolare,rissosa e incattivita del bipolarismo.

Una forma vecchia e barocca dell’attività parlamentare produce inefficienza e opacità e in questo senso non viene in soccorso dell’auspicata trasparenza il lavoro degli operatori dell’informazione: si verifica un plateale corto circuito per il quale i cronisti ignorano di solito il dibattito di merito e riferiscono della politica solo retroscena,gossip e dichiarazioni spettacolari,i politici si adattano e assecondano la tendenza comunicando per spot. E così avviene che il linguaggio della politica risulti di solito incomprensibile e la maggioranza degli italiani si sia convinta che non esistono più differenze tra i partiti.
In questo contesto la legge elettorale voluta dal governo Berlusconi nel 2006 ha da un lato allargato la sfiducia in un Parlamento di ”nominati” e, dall’altro, favorito l’ingresso a Montecitorio e a palazzo Madama di una classe dirigente complessivamente meno capace e meno autorevole.

E poi c’è il presidente del Consiglio.

Berlusconi nella sua ormai lunga esperienza politica ha dimostrato una strutturale incapacità a governare gli interessi pubblici ma ha dato prova di una straordinaria determinazione nella volontà di sabotare tutti i poteri costituzionali diversi dall’esecutivo. Non solo la guerra contro la magistratura e la Corte costituzionale. Il bersaglio principale è il Parlamento. Il meccanismo perverso dei decreti legge convertiti con voto di fiducia è stato progressivamente affinato con maxiemendamenti totalmente estranei al testo originario: eludendo in questo modo il controllo preventivo del Capo dello Stato e quello successivo delle Camere. In seguito,in regime di Bilancio irrigidito e impoverito,il semaforo per iniziative di legge parlamentare è rimasto sempre rosso per mancanza di copertura: così si è progressivamente svuotata l’agenda parlamentare,ormai ridotta all’esame di mozioni,interrogazioni e ratifica di trattati internazionali. Fanno eccezione le leggi di giustizia:ma questo è noto! L’opposizione non ha molti strumenti per invertire questa deriva,costretta ad oscillare tra sconfortante ostruzionismo e rincorsa della piazza:in realtà mancano,allo stato,ricette persuasive.

L’opinione pubblica,infine,sembra diffusamente intrisa di una sfiducia priva di passione,rassegnata o indifferente o,al massimo,disponibile ad un generale rigetto della politica e dei partiti,della”casta”. Così si dispiega una mutazione silenziosa della nostra democrazia.

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