(L’Huffington Post, 16 ottobre 2014)
“Una risorsa globale e che risponde al criterio della universalità (…); strumento essenziale per promuovere la partecipazione individuale e collettiva ai processi democratici e l’eguaglianza sostanziale”. Sono alcune delle definizioni della rete, contenute nel Preambolo della “Dichiarazione dei diritti in Internet”, elaborata dalla Commissione per i diritti e i doveri in internet costituita presso la Camera dei deputati. Si tratta di un’iniziativa importante, soprattutto perché contribuisce a promuovere la consapevolezza dei diritti nello spazio digitale. Che è sempre di più il nostro ‘reale’ spazio di vita: l’orizzonte concretissimo cui affidiamo la nostra esistenza, privata e pubblica. Per questo – ed è davvero la ‘cifra’ dell’azione dell’Autorità Garante – proteggere i nostri dati personali (cioè le parti di noi che consegniamo alla rete) vuol dire proteggere la nostra libertà e la nostra stessa vita da quei rischi di sorveglianza e selezione sociale richiamati dal documento, conseguenti a un uso distorto del Web.
Accanto alla straordinaria capacità di promuovere processi inclusivi, di partecipazione democratica e pluralistica, infatti, il web ha anche dimostrato – con l’ambivalenza propria di ogni tecnologia – di poter amplificare, con effetti dirompenti, atti discriminatori, violenti, vessatori, spesso nei confronti dei soggetti più fragili o di quanti siano percepiti (e rappresentati) come diversi. Ma la profilazione e il monitoraggio delle scelte individuali (espresse dal comportamento on-line), consentono più sottili strategie di esclusione, che rischiano di riprodurre quelle zone ‘ad accesso limitato’ di cui parla Bauman. Questi rischi di discriminazione e omologazione possono essere prevenuti soltanto con un consapevole esercizio, da parte di ciascuno, dei propri diritti in rete e con un impegno delle istituzioni tutte, nella consapevolezza che fenomeni globali- quali quelli propri dello spazio virtuale – esigono risposte altrettanto globali.
In questo senso, la prospettiva da cui muove la Dichiarazione – ovvero la promozione di quei principi nelle sedi internazionali- merita apprezzamento, pur nella consapevolezza dei limiti che incontra l’affermazione di una stessa regola in ordinamenti (e quindi in contesti sociali, politici, istituzionali) profondamente diversi tra loro. Ad esempio, l’equilibrio tra anonimato in rete e tutela di chiunque sia leso da comportamenti illeciti tenuti on-line, è realizzato prevedendo la reversibilità dell’anonimato (e quindi la possibilità di identificazione dell’agente) in base a provvedimento giudiziale, nei casi previsti dalla legge. Questo bilanciamento – soddisfacente, come affermato dalla stessa Cedu, in un ordinamento democratico – e affidato alle tipiche garanzie liberali della riserva di legge e di giurisdizione, rischia tuttavia di rivelarsi inadeguato in contesti appena meno liberali del nostro. In un ordinamento in cui il potere legislativo non sia espressione della volontà popolare e in cui l’ordine giudiziario sia privo di reale autonomia e indipendenza, infatti, non è difficile immaginare come le deroghe all’anonimato possano essere utilizzate dal regime per reprimere il dissenso e le minoranze.
Per altro verso, suscita più di una perplessità la formulazione in tema di diritto all’oblio contenuta nella Dichiarazione. Perché nel tentativo di adeguare il diritto a una realtà segnata da incessante e rapida evoluzione tecnologica, non bisogna sottovalutare le implicazioni di sistema che ha ogni nuovo istituto giuridico. Il documento prevede la legittimazione di chiunque a conoscere i casi nei quali altri abbiano ottenuto la deindicizzazione di propri dati personali (ovvero la sottrazione alla reperibilità, con i motori di ricerca, di notizie a partire dal solo nominativo dell’interessato, pur conservandole, nella loro integralità, nel sito-sorgente). Si dovrebbe quindi, evidentemente, pubblicare (sempre in rete?) un elenco dei soggetti che abbiano esercitato questa prerogativa. In tal modo un diritto, quale quello all’oblio – affermatosi come garanzia di una ‘biografia non ferita’ dallo stigma della memoria eterna della rete – rischierebbe, con un’eterogenesi dei fini, di rivolgersi nel suo opposto. E questo non mi pare condivisibile, dovendosi invece preservare la natura autentica del diritto all’oblio, che già di per sé consente di coniugare memoria collettiva e storia individuale; giudizio pubblico e identità personale.
Dobbiamo, infatti, garantire sempre che la tecnica sia alleata, invece che nemica, dei diritti. E che la rete, sfuggendo alle opposte tentazioni della censura e dell’anomia, promuova le libertà e i diritti di ciascuno.