Online tutte le sentenze della Cassazione: i rischi per la privacy e le possibili cautele

(L’Huffington Post, 3 novembre 2014)

Il progressivo dispiegarsi della “giustizia telematica” ha messo in evidenza questioni inedite sulle quali è tuttora aperto un confronto, con l’obbiettivo di coniugare pubblicità del processo e diritto alla riservatezza delle parti e dei terzi. Su questo tema la disputa non riguarda cosa la Legge consente di fare ma piuttosto su cosa, nel rispetto della Legge, sia giusto fare. E’ utile tornarci.

La sentenza è pubblica: in primo luogo perché è emessa nel nome del popolo; come nel nome del popolo- recita l’art. 101 Cost.- è amministrata la giustizia. Ed è pubblica perché conclude un processo la cui “pubblicità” si è storicamente affermata in funzione di garanzia del cittadino, rispetto alla tradizionale segretezza (e quindi insindacabilità) del potere esercitato con l’istruttoria giudiziale. In un senso diverso, la sentenza (quella di legittimità soprattutto) è pubblica perché afferma dei principi che costituiscono un patrimonio giuridico collettivo, cui ciascuno deve poter attingere.

Ma ciò vuol dire che chiunque ha, anche, il diritto di conoscere a chi appartiene tutto lo spaccato di vita che emerge, in ogni dettaglio, da una sentenza, civile, penale o amministrativa che sia? La pubblicità della sentenza equivale a mettere a nudo, con nomi e cognomi, le ragioni di un divorzio; l’infermità che determini una pronuncia d’interdizione; il danno esistenziale subito dalla vittima di un grave reato; il desiderio di una morte “dignitosa” che spinga il paziente in fase terminale a rifiutare le cure salva-vita; l’asperità di un conflitto che induca il lavoratore a convenire in giudizio il suo datore di lavoro? E’ davvero indispensabile – per consentire il doveroso controllo su di un potere esercitato, appunto, nel nome del popolo – identificare i protagonisti di vicende così profondamente umane, perché personali e privatissime?

E ai fini della conoscenza dei principi giuridici affermati dalla giurisprudenza, è necessario dare un nome alle parti, ai testimoni, a chiunque sia anche solo incidentalmente citato in sentenza? Siamo stati sinora abituati – è vero, anche se non è detto che sia un bene – a identificare le sentenze con il nome delle parti, avendone letto massime e commenti su riviste giuridiche. Ma – ed è questo il punto – la divulgazione ‘libera’ sul web, con accesso indiscriminato perché privo di ogni filtro è davvero identica alla pubblicazione della stessa sentenza su di una rivista giuridica cartacea?

La pubblicazione in rete cambia profondamente l’informazione – anche quella giuridica – nel significato, nel fine, nel valore, ma anche nei rischi. La pubblicazione sul web di dati preziosi quali quelli ricavabili da una sentenza e dai principi che vi sono affermati è indubbiamente più “democratica” perché raggiunge (potenzialmente) tutti i cittadini, mettendo a disposizione un patrimonio informativo importante, anche a coloro i quali, probabilmente, non si sarebbero mai avvicinati a una rivista giuridica. Ma questa facilità nell’accesso – che è una straordinaria risorsa per i singoli e le istituzioni – è anche, paradossalmente, la più grande fonte di rischio delle pubblicazioni on-line, suscettibili di indicizzazione, riproduzione decontestualizzata, alterazione, finanche manipolazione e per questo in alcun modo assimilabili alle pubblicazioni cartacee.

Le tecnologie mutano, assieme ai nostri costumi, anche gli istituti giuridici che regolano la vita e che mantengono il loro senso soltanto se interpretati alla luce del contesto di riferimento, con la duttilità e la lungimiranza necessarie. Quelle, ad esempio, dimostrate dalla Corte suprema americana, che a maggio ha esteso le garanzie previste per gli atti limitativi della libertà alle perquisizioni dei telefoni cellulari. Quella decisione si fonda, infatti, sul riconoscimento di come, oggi, questi dispositivi racchiudano pezzi interi della vita privata di ognuno di noi e non possano, dunque, essere disciplinati come lo erano anche solo pochi anni fa.

Sempre a maggio, la Corte di giustizia europea, con la nota sentenza sul diritto all’oblio, ha invece sottolineato i rischi connessi all’indicizzazione di dati personali da parte dei motori di ricerca, sancendo così il diritto di ciascuno a richiedere la sottrazione della notizia quando non sia più attuale, pur mantenendola nel “sito-sorgente”. Questa soluzione consente, infatti, di coniugare storia individuale e memoria collettiva, diritto di cronaca ed esigenza di ciascuno a non vedere la propria intera esistenza ridotta a un istante o un dettaglio, a volte anche fuorviante o poco rappresentativo.

La tecnica, dunque, se utilizzata con accortezza, può offrire anche le soluzioni a problemi che sembrerebbero, altrimenti, giuridicamente insuperabili. Nel caso delle sentenze, ad esempio, l’oscuramento dei nominativi delle parti o dei terzi a qualsiasi titolo coinvolti e/o l’adozione di tecniche che impediscano l’indicizzazione da parte dei motori di ricerca generalisti potrebbero rappresentare utili soluzioni, capaci di coniugare la più ampia accessibilità alla pronuncia e ai principi ivi affermati, con il diritto alla riservatezza degli interessati. Sarebbe, questo, un valido esempio di come la tecnica possa anche, a volte, essere alleata, invece che nemica, dei diritti.

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