Terrorismo, l’equilibrio tra prevenzione e privacy

(Il Messaggero, 21 gennaio 2015)

“Una risposta unitaria dell’Europa alla sfida del terrorismo islamista”. È questo, nelle parole del ministro Gentiloni, l’obiettivo della riunione tenutasi a Bruxelles tra i ministri degli Esteri dei vari Paesi europei, per delineare una strategia coordinata anti-terrorismo. Tra le più importanti misure su cui dovrebbe fondarsi quest’azione comune, vi è la disciplina della cessione, da parte delle compagnie aeree alle autorità inquirenti, delle informazioni riguardanti i passeggeri (Pnr). Rispetto a questo tema, è stata da più parti richiamata, anche dallo stesso ministro, l’esigenza di un giusto equilibrio tra sicurezza e privacy. Equilibrio che mancava, ad esempio, nella prima proposta di accordo con gli Usa che il Parlamento europeo sospese nel 2003, appunto per proteggere i cittadini da un’indiscriminata e massiva acquisizione dei loro dati, peraltro senza adeguate garanzie, da parte delle agenzie americane.

La proposta di direttiva attualmente in discussione sembrerebbe aver fatto tesoro di quell’esperienza, dal momento che parrebbe prevedere tempi e modalità di conservazione dei dati ragionevoli e proporzionati alle esigenze delle indagini per i reati più gravi. E questo è tanto più importante in ragione delle perplessità, anche autorevolmente avanzate (penso, in particolare, al procuratore Armando Spataro) sulla reale utilità investigativa del Pnr.

Ciò che invece va ribadito è che la privacy non può essere evocata strumentalmente come ostacolo a una direttiva così costruita. E questo nella misura in cui quella disciplina rispetti – come ad oggi parrebbe – il principio di proporzionalità su cui la Corte di giustizia ha modulato il bilanciamento tra libertà e sicurezza, nella sentenza di aprile sulla data retention, sottolineando l’esigenza di un’adeguata selezione del materiale investigativo, che non può certo fondarsi sulla pesca a strascico nelle vite degli altri. Perché non è sostenibile democraticamente né utile alle indagini.

Un’efficace azione di prevenzione del terrorismo deve dunque selezionare (con intelligenza, appunto) gli obiettivi “sensibili” in funzione del loro grado di rischio e fare della protezione dati una condizione strutturale della cybersecurity. Proteggere i dati personali raccolti nelle grandi banche dati pubbliche e private vuoi dire, infatti, anche minimizzare le fonti di vulnerabilità dei sistemi e, quindi, promuovere la sicurezza: dei singoli e degli Stati.

Penso ad esempio che il processo di informatizzazione delle amministrazioni non possa prescindere da una organica strategia, nazionale ed europea, di protezione dei dati e dei sistemi, che assicuri un’adeguata capacità difensiva delle nostre istituzioni, oltre alla necessaria tutela della libertà e della stessa incolumità dei cittadini. Tanto più adesso, concentra i suoi obiettivi non più sulle istituzioni-simbolo (quale era ad esempio il World Trade Center) ma sulle persone-simbolo (i redattori di Charlie, che personificano il rapporto media-opinione pubblica), individuate in base a un’accorta profilazione del soggetto, resa possibile dall’incrocio tra le informazioni presenti nelle varie banche dati.

Tutt’altro che un ostacolo, la privacy è semmai un presupposto per la condivisione e l’efficiente gestione di informazioni tra autorità investigative dei vari Paesi, in unquadro di garanzie e di adeguata selezione dei dati realmente utili ai fini d’indagine. E proprio oggi, di fronte alla riproposizione di un’anacronistica chiusura dello spazio Schengen, dovremmo ricordare che un’adeguata legislazione sulla protezione dati è stata sempre la condizione posta ai vari governi (il nostro per primo) per farvi parte. A dimostrazione, dunque, della sinergia (tutf altro che antagonismo!) tra protezione dati e sicurezza, tanto più in un mondo che, per fortuna, ha visto cadere ormai ogni frontiera e che, dopo le rivelazioni del Datagate, non può più considerare la privacy come un lusso cui rinunciare in nome di una malintesa idea di sicurezza.

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