La debolezza del sud
La Nuova Sardegna, 15/03/1987
La questione meridionale riemerge dall’oblio dell’ultimo decennio e si propone con forza come il problema degli anni novanta. E tuttavia si impone un aggiornamento rapido e vigoroso degli schemi politici ed economici di lettura del problema.
Si dice che nei trentasei anni di intervento straordinario il Mezzogiorno è cresciuto in modo disuguale e la struttura del sistema produttivo disegna oggi una nuova geografia del Sud. In un recente studio dello Svimez, illustrato da Pasquale Saraceno, viene proposta una nuova ripartizione in tre gruppi, sulla base della capacità produttiva e del tasso di industrializzazione.
Un primo gruppo (Abruzzo e Molise e le provincie non meridionali ammesse all’intervento) in cui si potrebbe considerare conclusa la rincorsa del Centro-Nord e non più necessario lo stesso intervento straordinario.
Un secondo gruppo (Campania, Basilicata e Puglia) in cui il processo di industrializzazione avviato consente di intravedere, a tempi non brevissimi, la possibilità di risultati simili a quelli del primo gruppo.
Un terzo gruppo (Calabria, Sicilia e Sardegna) in cui il ritardo è così rilevante da richiedere una riconsiderazione della situazione. Per avere un riferimento, basti dire che il tasso di industrializzazione (addetti industriali per ogni mille abitanti) è rispettivamente di 74, 54 e 34. La Sardegna si trova nella posizione di coda.
L’enfasi con cui finora si è parlato dei 120.000 miliardi della nuova legge per il Mezzogiorno appare eccessiva e l’uso che si comincia a intravvedere di quelle risorse suggerisce forti preoccupazioni. E in particolare:
1) il preliminare prelievo per completamento di vecchie opere e cosidetti adeguamenti funzionali che rischiano di lasciare le briciole alle nuove categorie di intervento.
2) Una gestione del rapporto Ministro-Cipe-Comitato per le regioni meridionali ad impronta di tipo familiaristico, già vista nella vituperata Cassa.
3) Un ruolo delle regioni che, in contraddizione con lo spirito della legge, appare progressivarnente marginalizzato, anche per la carenza di progettualaità delle classi dirigenti regionali.
4)11 forte intervento della grande industria nel settore delle costruzioni di opere pubbliche, che tende a drenare verso il Nord ingenti quote, non quantificabili facilmente, del- le risorse computate nella legge per il Mezzogiorno.
5) primo programma di attuazione non tiene conto della modificata geografia economica dell’italia meridionale.
Se il governo della economia nazionale sarà nei prossimi anni affidato alle leggi di mercato e la legge sul nuovo intervento straordinario conserverà l’attuale qualità di attuazione, è verosimile che la tendenza al divario possa crescere. Appare in tutta la sua chiarezza “la ricaduta meridionale” di una politica neo liberista che, esaltando il princip o più mercato meno Stato, ha trovato in questi anni larga ospitalità in partiti e sindacati.
Si ripropone quindi il bisogno di una poi Wca di programmazione, che esprima l’interese nazionale alla questione meridionale e insieme restituisca alla politica il primato nel governo dell’economia. Una politica di programmazione, a cui partecipino le autonomia regionali, che punti a modificare i fattori capaci di attivare lo sviluppo e creare nel Mezzogiorno una convenienza agli investimenti almeno pari al Centro-Nord.
E tuttavia noi sappiano che questo obiettivo non appartiene al breve periodo. Sappiamo che nel(e condizioni dì sviluppo nazionale e di incremento della produttività al Sud, pari a quella attualmente esistente nel Centro-Nord, nei prossimi sei anni circa un milione e mezzo di disoccupati si concentrerà nel Sud e verosimilmente in quella parte che appare più arretrata. La questione Meridionale diventerà sempre più la questione sociale del Paese.
Le questione sarda si proietta drammaticamente su questo scenario. Avvertiamo tutto intero il peso dalla debolezza e, insieme, la misura dell’inadeguatezza dei riti bizantini della politica sarda, del suo vuoto verbalismo e della sua attuale inconcludente gestione autonomistica. E allora i termini nuovi della questione Meridionale non risiedono solo noi bisogno di un severo ritorno alla programmazione, nella necessità di ancorare a criteri di sostanziale selettività meridionalista l’intervento ordinario dello Stato, nell’urgenza di ridare una bussola alle Partecipazioni Statali, restituendole non a logiche di assistenza e di spreco ma di qua’ificazione degli investimenti. No, occorre qualcosa di di- verso. Occorre vincere una condizione prima ancora culturale che politica, per cui oggi al Nord, è più difficile che negli anni passati parlare di Mezzogiorno. Quella condizione per cui si formula l’equazione intervento straordinario uguale a sperpero e corruzione come premessa per la sopressione della categoria culturale e politica del Mezzogiorno. Quella condizione per cui è possibile porre, senza scandalo, una questione settentrionale.
E questo non avviene, queste condizioni non si modificano attraverso riti di arnontazione e di protesta: occorre progetto. Nell’assenza dì progetto risiede la nostra debozza maggiore.
Che è poi la debolezza della classe dirigente meridionale. Ma l’esserne consapevoli è già un segno di cambiamento. E qui sta davvero il confine fra le nostre speranze e la nostra condanna.