15 ottobre, ricomincia il viaggio

15 ottobre 2007

Quando tre milioni e mezzo di persone si mettono in fila per esprimere un voto, per manifestare un interesse non superficiale verso una proposta politica e per scegliere una classe dirigente, vuol dire che la nostra democrazia è ancora saldamente radicata nella coscienza degli
italiani.

E significa che la politica non costituisce quella categoria negativa e impopolare che spesso viene raccontata dai media ma che in fondo è ancora il luogo nel quale si ripongono speranze, passioni e talora anche i sogni dei nostri concittadini.

Dovranno registrarlo e farsene una ragione quanti hanno ripreso a cavalcare, in questi mesi, la tigre dell’antipolitica.
E dovranno interrogarsi a fondo i molti seminatori di dubbi (e talvolta peggio!) che dentro e fuori il perimetro ulivista hanno consumato molto fiato per raccontare che nasceva un compromesso storico bonsai, il prodotto di una fusione a freddo, una deprimente aggregazione di apparati.

La società italiana qualche volta è migliore dei suoi rappresentanti e dei suoi narratori.

Ma nessuno di noi può permettersi di ignorare che al fondo del successo delle primarie c’è un’incontenibile e indiscutibile domanda di cambiamento, una spinta energica nella direzione di un profondo rinnovamento della nostra democrazia.

Ora si chiude un ciclo e inizia una fase nuova.

Come sempre si intrecceranno in qualche misura passato e futuro, ma la novità dovrà essere in questa circostanza assai più forte e visibile della fisiologica continuità.

Tale prospettiva mette in gioco le idee, le strutture, le forme di organizzazione del nuovo partito e, come ineludibile corollario, gli interpreti principali della stagione che inizia.

Non ho mai coltivato in modo ossessivo il mito del rinnovamento dei gruppi dirigenti come un congegno di automatismi anagrafici, d’altra parte il successo di Veltroni segnala in modo evidente che la scala dei valori su cui si forma il consenso e si fonda la leadership è regolata dalla capacità di leggere la società, individuarne le tendenze, guidare i processi, piuttosto che da meccanismi di burocratica applicazione di norme di successione. Sono, per converso, un fautore del gradualismo e della moderazione quando si accompagnano al rispetto rigoroso di una chiara direzione di senso.

E tuttavia una nuova storia ha bisogno di molti interpreti liberi da biografie ingombranti e privi di cicatrici legate ai mille conflitti, anche personali, che si stratificano nel corso dell’esperienza politica.

Per questo credo che dovremo tutti mettere in conto un salto di generazione nella scelta di nuovi dirigenti del Partito Democratico, a ogni livello.

Penso che tra i fondamentali da cui non dovremmo mai allontanarci ci sia la scelta in favore di un maturo sistema bipolare europeo. È questo un carattere che fa parte del codice genetico del PD, perché corrisponde alla nostra idea di democrazia che assegna al cittadino il ruolo di arbitro consapevole. E correntemente il nostro sarà, lo abbiamo ripetuto tante volte, un partito a vocazione maggioritaria perché ha l’ambizione di proporsi all’intera comunità nazionale per ricercarne conoscenza e consenso.

Dovremo conservare sempre il carattere di apertura che abbiamo sperimentato con le primarie, con l’obiettivo di promuovere la partecipazione e, insieme, di cogliere le domande più esigenti presenti nel profondo della nostra società.

Dovremo alimentare la cultura del riformismo europeo del XXI secolo, mettendoci in sintonia con le correnti più vive del pensiero politico che alimentano le democrazie in ogni angolo del mondo.

Per questo dobbiamo intraprendere con decisione la strada delle riforme e della modernizzazione in campo economico, affrancandoci dalla sopravvivenza di schemi ideologici legati alla tradizione statalista della vecchia sinistra. Abbiamo indicato nei mesi scorsi una prospettiva per l’Italia con cui sia possibile liberare risorse dalle rendite per impegnarle nello sviluppo, affidando alla competizione delle idee e delle imprese il compito di motore per la crescita della ricchezza nazionale.

Il PD deve scommettere sulla possibilità di allargare gli spazi di libertà nell’attività economica e contemporaneamente riaprire la mobilità sociale fondata sul merito: sono due corni di una stessa politica così come la riforma del welfare e quella del mercato del lavoro.

E tuttavia si pone oggi con più urgenza il bisogno di confrontare le nostre tesi, quelle di un riformismo liberale largamente praticato in Europa, con nuovi attori e nuovi problemi connessi alle trasformazioni in corso nell’economia del nostro tempo.

Penso al potenziale distruttivo legato alla natura in parte inesplorata della relazione tra economia reale e sistema finanziario internazionale, messo in evidenza nei mesi scorsi dalla crisi dei mutui subprime.

Penso agli effetti che i giganteschi flussi migratori dai paesi poveri producono sull’equilibrio delle economie nazionali.

Penso all’ingresso nel teatro della competizione di un inedito capitalismo di stato in cui si confondono e si sovrappongono finanza e politica: a fronte di straordinari investimenti dei cosiddetti fondi sovrani di Cina e Russia per l’acquisizione di imprese europee e americane, le nostre democrazie appaiono incapaci di trovare la cifra di una nuova politica, di attivare strumenti adeguati per reggere il confronto.

Queste e tante altre sono le sfide del XXI secolo che ci costringono a ripensare schemi e riferimenti consolidati, a rimetterci in discussione, senza timore o superbia, con umiltà e insieme con l’entusiasmo di chi scopre le nuove frontiere.

Ma l’interrogativo più pressante, spesso drammaticamente pressante, riguarda la possibilità di reagire ai mutamenti climatici.

Gli studi scientifici dimostrano, al di là di ogni dubbio, che le variazioni della temperatura e dei cicli dell’energia nel pianeta comportano un pericolo generalizzato per gli abitanti di tutti i continenti.

È certo che l’attività umana genera cambiamenti, così come è certo che questo processo ha subito nell’ultimo secolo una straordinaria accelerazione, con effetti imprevedibili sulla complessa rete di interconnessioni tra gli elementi costitutivi del pianeta.

Penso che la politica debba avere nei confronti dell’emergenza climatica un atteggiamento di grande coraggio, e di altrettanto grande saggezza, per attivare senza indugio strategie nuove ed efficaci.

Non si tratta soltanto di incoraggiare la produzione di energie alternative, di adottare misure e introdurre norme per ridurre i consumi, ma piuttosto di promuovere un cambiamento profondo dei sistemi produttivi e degli stili di vita.

La vera sfida si gioca sul terreno della cultura, della formazione di una generazione consapevole del comune destino e delle proprie responsabilità.

La nostra capacità di rispondere con serietà alla domanda di futuro implicita nella questione climatica si gioca nel tempo breve e si intreccia con il rischio di ridurre gli spazi per le decisioni; quindi, in definitiva, di ridurre gli spazi di libertà.

È straordinariamente grande e aperto l’orizzonte nel quale si staglia l’idea di progettare la politica, la ricerca di una risposta persuasiva alle domande che accompagnano e spesso tormentano le donne e gli uomini del nostro tempo.

L’idea del Partito Democratico ha impegnato per anni, in un’altalena di speranze e delusioni, frenate e accelerazioni, un numero grandissimo di personalità della vita politica, della cultura e del lavoro: ho presente il genio di Nino Andreatta, la sofferta intelligenza di Pietro Scoppola, la generosità dei dirigenti dei Democratici di Sinistra e della Margherita ma anche i tantissimi sconosciuti cittadini delle associazioni per l’Ulivo, gli infaticabili militanti che hanno organizzato le primarie.
Considero un grande privilegio aver partecipato a questa avventura.

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