L’Italia immobile

9 novembre 2006

 

Quando sale la tensione, sociale e politica, può venire la tentazione di alzare la voce, di usare toni ultimativi, di far vedere i muscoli: così però si rischia la rottura e dietro la rottura c’è solo il buio.

In ogni caso il fallimento del programma riformista di Romano Prodi sarebbe un guaio per il paese.

Per questo penso che occorra mettere in campo, da parte di tutti, un supplemento di saggezza. E dispiegare molta capacità di ascolto reciproco dentro la maggioranza e nei confronti della società italiana: non solo delle nostre tifoserie, ma di tutta la società italiana. Il percorso parlamentare della manovra economica ha messo in evidenza incertezze e contraddizioni che rischiano di appannare il profilo vero dell’azione di governo.

Dovremmo fare uno sforzo di franchezza per rimettere al centro gli obiettivi fondamentali. A partire dalla riaffermazione che il risanamento dei conti è un atto dovuto per conservare il rispetto e la fiducia dei mercati e dei partner europei con i quali condividiamo la moneta. Ma soprattutto per avviare una strada virtuosa nell’uso delle risorse pubbliche, dopo anni in cui si è dissipato un patrimonio prezioso di avanzo primario.

Se avessimo scelto di limitare la manovra al solo risanamento forse avremmo avuto meno problemi, ma avremmo disatteso il nostro obiettivo più importante: allontanare l’Italia dal declino, far partire un ciclo di sviluppo, avviare le riforme strutturali della spesa.

Le due parole centrali del nostro programma di governo restano crescita ed equità. Ma sappiamo che se non riparte l’economia non ci sono risorse da ridistribuire. Per crescere occorre una forte iniezione di ossigeno per il nostro sistema produttivo, da molto tempo avvitato in una spirale di declino. Non esistono ricette magiche ma solo ineludibili azioni decise per spostare più risorse dalla rendita ­ spesso fondata su privilegi e monopoli ­ verso gli investimenti per lo sviluppo. Occorre quindi insistere sulle riforme, liberali e strutturali. Per aumentare la competitività delle imprese, per promuovere l’intelligenza, per cancellare gli sprechi stratificati nell’amministrazione pubblica statale e locale, per accrescere il carattere decidente della nostra democrazia, rimuovendo le ragnatele di convenzioni negoziali segnate da molti incontri e poca partecipazione reale, per riformare la politica. Il bisogno di rinnovamento non riguarda solo i partiti ma anche i sindacati e le organizzazioni di categoria.

Dobbiamo ridurre il divario tra cittadini e istituzioni, nel nome di una nuova sintesi tra partecipazione e libertà, superando resistenze e incomprensioni. Liberalizzare significa sprigionare nuove energie, scommettendo sul merito, sui talenti, sulla concorrenza.

Invece da molte parti sopravvive l’idea un po’ anacronistica secondo cui i cittadini sono beneficiari dei servizi ma non possono essere anche erogatori. Noi pensiamo che sia indispensabile accompagnare lo sviluppo della società civile partendo dal basso e che il principio di sussidiarietà debba essere parola chiave del nuovo riformismo. Il dualismo pubblico­-privato viene spesso recitato secondo un’interpretazione un po’ datata.

In realtà non esistono linee nette di demarcazione: sul terreno dell’efficienza, della trasparenza così come in quello dello spreco e della rendita parassitaria, pubblico e privato offrono cataloghi assai generosi.

Il mostruoso debito pubblico ci impone il dovere morale di affrontare con rigore il contenimento e la riqualificazione della spesa: resistendo e ignorando le pressioni corporative.

Per converso, è giusto pretendere contestualità delle politiche per il risanamento e per la ripresa dello sviluppo con un impegno altrettanto deciso in favore dell’inclusione e di contrasto delle disuguaglianze.

Dobbiamo partire dalla consapevolezza che siamo diventati i campioni negativi della mobilità sociale nel Vecchio Continente, per ripensare gli strumenti di governo, per aggiornare le categorie di analisi su cui fondare le politiche sociali. Sappiamo che le classi di reddito non sono più sufficienti a disegnare la topografia della società italiana su cui orientare azioni redistributive e di coesione.

Età, genere, stato di salute, relazioni sociali, accesso all’informazione, area di residenza più o meno fornita di servizi, nucleo familiare più o meno numeroso sono tra le condizioni decisive nella creazione di insicurezza e di blocco della mobilità sociale. La combinazione di questi fattori ha generato nuove linee di faglia che spingono verso la povertà fasce di cittadini che per professione e per categorie di reddito sono percepite come indistinto ceto medio. A quei cittadini dobbiamo pensare in questi giorni per fermare le spinte divisive e mantenere ferma la bussola. L’Italia ha bisogno di un grande patto sociale che eviti il conflitto tra generazioni, tra Nord e Sud, tra precari e stabilizzati, tra autonomi e dipendenti… un patto per allargare i diritti di cittadinanza, per rimettere in moto il paese. È solo dentro questo orizzonte che vinceremo la sfida di governo.

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