Intervento di Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
(“Il Messaggero”, 5 aprile 2017)
Se attorno alla disciplina delle intercettazioni si discute ormai da più di un decennio, il dibattito recente si muove però su un orizzonte in parte nuovo. Da un lato per la riforma all’esame del Parlamento, dall’altro per le direttive emanate da alcune Procure e dal Csm, in ordine alla trascrizione dei contenuti intercettati. Ne da atto il recente intervento del Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Ma l’elemento maggiormente innovativo è il contesto in cui quel dibattito si inserisce.
Un dibattito che si inserisce al crocevia tra retorica della disintermediazione e quella tendenza al populismo penale, che identifica nella giustizia penale la principale, anzi l’unica forma possibile di giustizia sociale. E se da quest’attribuzione al giudiziario di aspettative che non gli sono proprie deriva, fatalmente, una lacerazione tra giustizia attesa e giustizia amministrata, essa si approfondisce sino a divenire insanabile, per la distorsione subita dal principio di pubblicità del processo.
Principio nato per sottrarre l’amministrazione della giustizia a quella segretezza che ne aveva fondato l’arbitrarietà, ma non per consentire la delocalizzazione della scena giudiziaria sul web, ove l’etica del limite e del dubbio sono sostituite dalla presunzione di colpevolezza. In discussione non è la privacy dei politici, cui spetta una tutela attenuata per consentire un più efficace controllo dei cittadini sulla loro attività. In realtà i protagonisti del processo mediático sono spesso cittadini del tutto estranei alla vita pubblica.
Gli effetti sono dirompenti, tanto sul piano pubblico quanto su quello individuale. Sotto il primo profilo, l’anticipazione del giudizio di colpevolezza che si determina nell’opinione pubblica rende ancora più difficile l’esercizio, da parte del giudice, del suo dovere di terzietà. Poco senso ha il principio della formazione della prova in dibattimento, se già prima dell’udienza preliminare l’intero quadro indiziario è stato scandagliato in ogni suo aspetto su social media e blog.
A ciò contribuisce l’amplificazione offerta dal web alle varie espressioni della potestà punitiva: informazioni di garanzia “anticipate” dai giornali e rilanciate da un sito all’altro come fossero sentenze di condanna, foto di imputati in vincoli senza neppure il volto oscurato, interrogatori di indagati, a volte addirittura in stato di detenzione, divulgati in rete senza filtri. E i “coinvolti”: coloro che, ne imputati ne indagati, sono meramente citati negli atti d’indagine. Ma ciò basta a darli in pasto all’indignazione collettiva, che non ha la cura di distinguere tra le diverse posizioni processuali.
E gli effetti sulla persona della mediatizzazione del processo sono, se possibile, ancora più gravi. Riversando in rete atti d’indagine nella loro integralità si mettono a nudo l’indagato e i terzi, a qualsiasi titolo coinvolti nel processo, rivelando aspetti spesso privatissimi della loro vita, inlnfluenti ai fini investigativi, con danni a volte irreparabili nella vita familiare e di relazione. Gran parte di queste notizie resta, poi, in rete tendenzialmente per sempre, accessibile con i motori di ricerca anche solo digitando un nome. La persistenza di queste notizie sul web costituisce, così, un “fine pena mai”, a prescindere da come si concluda il processo, per la diversa risonanza che hanno le assoluzioni rispetto alle imputazioni. Un arresto fa molta più notizia di un proscioglimento, per quell’esigenza diffusa di dare nome e volto al “nemico pubblico”, ancor prima che il quadro probatorio si sia cristallizzato, quasi per placare un’ansia collettiva.
Al fondo di questa deriva c’è stata una lunga indisponibilità dei vari attori ad un confronto non ideologico. Forse siamo entrati in una nuova stagione.
Occorrerà che il legislatore non lasci cadere nel vuoto le impegnative parole del dottor Pignatone. Ma nessuna norma e nessuna disciplina organizzativa potrà sostituire l’esercizio responsabile del diritto di cronaca, che nel caso della giudiziaria tocca quanto di più prezioso abbiamo, come singoli – la reputazione e la dignità – e come collettività – l’esercizio imparziale della funzione giurisdizionale.