La reputazione online tra principi di dignità e diritto all’oblio digitale

(L’Huffington Post, 6 ottobre 2015)

Tra le nuove tendenze agevolate dalla facilità con la quale è possibile raccogliere e archiviare dati e informazioni, stiamo assistendo, soprattutto nel settore privato, ad una preoccupante proliferazione di applicazioni o di banche dati che tendono a stigmatizzare le persone con effetti e conseguenze negative sulla loro vita privata, sociale ed economica.

Il rischio che progetti finalizzati ad aggregare informazioni provenienti da diverse fonti, non sempre di carattere oggettivo, si estendano dalla valutazione di strutture ricettive o di ristorazione direttamente a quella delle persone, è ormai realtà.

Sistemi che puntano, in sostanza, a rendere misurabile la reputazione dei soggetti censiti e che sollevano più di una preoccupazione, nonostante le finalità dichiarate siano quasi sempre giustificate dal perseguimento di rilevanti obiettivi quali, ad esempio, lotta alla corruzione, alle false identità, alle frodi etc.

Tuttavia, l’idea di affidare la “recensione” di una persona ad un algoritmo rischia di aprire davvero una deriva assai pericolosa. Si impone da subito una riflessione che vada oltre l’applicazione tecnicistica delle norme del Codice privacy, per soffermarsi piuttosto sui principi di carattere generale da questo sanciti.

È evidente che la reputazione degli individui che si vorrebbe quantificare per attribuire punteggi di affidabilità è strettamente legata alla persona considerata nella sua proiezione sociale e risulta intimamente connessa con la dignità, elemento cardine della disciplina in materia di protezione dei dati personali.

Molti dubbi riguardano l’effettiva qualità dei dati raccolti – destinati appunto ad essere elaborati da specifici algoritmi – o la genuinità delle eventuali recensioni inserite da terzi che possono facilmente prestarsi ad usi distorti, diffamatori o lesivi. Giudizi che rischiano di compromettere gravemente il diritto all’identità personale, e i cui effetti pregiudizievoli vengono irrimediabilmente amplificati dall’accesso libero degli utenti, magari attraverso i motori di ricerca. E cristallizzati nella rete per un tempo indefinito.

Non solo. Impongono valutazioni ulteriori sia le concrete modalità di gestione di tali sistemi di rating sia la discrezionalità dei criteri di misurazione individuati da parte delle società che intendono offrire sul mercato tali servizi.

Non è un mistero che in passato i gestori, in alcuni casi, hanno addirittura consapevolmente alterato il mercato di riferimento inserendo false recensioni. Si tratta di progetti e pratiche che, a fronte delle diverse criticità sollevate, hanno un notevole impatto sulla sfera personale degli utenti, sul loro diritto all’autodeterminazione informativa. Dimensione questa la cui centralità è stata ribadita dalla sentenza Google Spain, che ha riconosciuto l’esercizio di un nuovo diritto all’oblio digitale.

Un essere umano non è una cosa, non è un oggetto commerciale, non è un servizio e non può e non deve diventarlo neppure per un istante. Con la sentenza Google, la Corte ha stabilito che, in caso di conflitto, il mero interesse economico soccombe, quando ricorrono determinate condizioni, rispetto alla categoria di diritti fondamentali che sono espressione dei principi di dignità contenuti nella Carta dei diritti.

Sulla base di tali presupposti, diventa allora difficile implementare banche dati o servizi finalizzati alla profilazione di una persona anche sul piano morale e relazionale per valutarne – eventualmente – l’asserita affidabilità. L’ordinamento europeo tutela la privacy, riconosciuta come diritto fondamentale dell’uomo e vieta di “recensire” una qualunque persona in assenza di un interesse pubblico che certo non può essere invocato quando si entra nel mondo delle relazioni personali e sentimentali di chiunque disponga di un account delle reti sociali.

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