(Il Messaggero, 4 ottobre 2014)
Avvisi di garanzia “anticipati” dai giornali; pagine intere di intercettazioni pubblicate sulla stampa; interrogatori di indagati, a volte addirittura in stato di detenzione, divulgati in rete senza filtri; immagini di imputati in manette trasmesse in tv. I processi oggi sembrano celebrarsi più che nelle aule giudiziarie sui giornali e soprattutto in rete, con effetti sui quali, forse, vale la pena riflettere. E’ una conquista della modernità l’aver reso pubblico (e quindi non arbitrario) il processo. Ma la non-segretezza del giudizio, valore essenziale della democrazia, non vuol dire gogna mediatica: è ineludibile garanzia di legalità nel “giusto processo” e non la trasposizione integrale in rete di ogni singolo dettaglio di vita privata che sia presente negli atti giudiziari.
I rischi del processo mediatico sono infatti tutt’altro che irrilevanti: per i singoli e per la società tutta. Il voyeurismo, in primo luogo, alimentato da quel giornalismo “di trascrizione” che sfrutta strumenti d’indagine preziosissimi, quali le intercettazioni, ma estremamente pervasivi, per soddisfare la curiosità morbosa del pubblico spesso ben oltre le esigenze informative rispetto a fatti, essi sì, di interesse pubblico.
Riversando in rete, senza alcuna selezione, atti investigativi nella loro integralità si mettono così a nudo l’indagato e i terzi, a qualsiasi titolo coinvolti nel processo, rivelando aspetti spesso privatissimi e intimi della loro vita, condanni a volte irreparabili nella vita familiare e di relazione (si pensi alla scoperta di una paternità naturale diversa da quella dichiarata). Gran parte di queste notizie resta, poi, in rete tendenzialmente per sempre, accessibile con i comuni motori di ricerca anche solo digitando un nome. Il rischio, qui, è la “damnatio memoriae“: la condanna, cioè, a vedere la propria intera esistenza ridotta a un dettaglio, spesso deformato e deformante.
Quella della “biografia ferita” è, infatti, una sottovalutata implicazione della cronaca giudiziaria on-line: che porta l’indagato poi prosciolto ad essere ricordato per sempre – “etichettato” – come colpevole (magari anche di un reato infamante) per la diversa risonanza che hanno le assoluzioni rispetto alle imputazioni. «Only bad – news are good news»: è vero anche qui. Un arresto fa molta più notizia di un’assoluzione, per quell’esigenza – figlia di un certo giustizialismo – di dare un nome e un volto al “nemico pubblico”, ancor prima che il quadro probatorio si sia cristallizzato, quasi per placare un’ansia collettiva.
Gli effetti sono duplici e importanti: per l’indagato e per la stessa giustizia (amministrata e rappresentata). L’indagato poi prosciolto subirà, infatti, uno stigma perenne dal vedere accostato al suo nome un’imputazione rivelatasi infondata, in violazione anche della presunzione d’innocenza. Di qui il diritto – sancito dal Garante oltre che dalla giurisprudenza -ad ottenere, quantomeno dagli archivi on-line dei giornali, un link agli sviluppi successivi della notizia, così da garantire un’informazione aggiornata e completa e, insieme, a dignità dell’interessato. Ma anche il condannato, a distanza di molto tempo dal fatto e in assenza di ragioni che rinnovino l’interesse pubblico della notizia, ha diritto “all’oblio”: a non vedere, cioè, la complessità di una vita ridotta a quell’unica “colpa”. Di qui la possibilità di minimizzare lo stigma perenne della rete, richiedendo agli stessi motori di ricerca la deindicizzazione di queste notizie, pur presenti nei siti-sorgente, così coniugando memoria collettiva e storia individuale; giudizio pubblico e diritto al reinserimento sociale.
Tutti questi “rimedi” non possono però sostituire l’esercizio responsabile del diritto di cronaca, che nel caso della giudiziaria tocca quanto di più prezioso abbiamo, come singoli – la reputazione e la dignità – e come collettività- l’esercizio imparziale della funzione giurisdizionale. Le fughe di notizie, i dettagli della indagini pubblicati sui giornali in un clima spesso fortemente colpevolista rischiano, infatti, di privare anche il giudice di quella “neutralità cognitiva” che è il presupposto della sua terzietà. La giustizia deve prescindere tanto dalla ricerca del consenso, quanto dall’ideologia della trasparenza, ricordava anni fa il giurista Antoine Garapon. Soprattutto da quelle che si pretenderebbe di realizzare delocalizzando sul web la scena giudiziaria, assecondando logiche di audience piuttosto che di legalità, che finiscono per degradare la giustizia, per di più violando la dignità delle persone.