Con il voto sardo dimostreremo al premier che non è invincibile

L’Unità, 15/02/2009

 

Il capogruppo Pd alla Camera: «Soru in pochi anni ha cambiato strutturalmente la Sardegna, incarna l’anima dei democratici».

Antonello Soro, nuorese, capogruppo del Partito democratico alla Camera, è ottimista sul risultato del suo quasi omonimo candidato alla presidenza della Regione sarda. Ha visto piazze gremite come da anni non ne vedeva. Ha avvertito, nei discorsi tra gli elettori, la consapevolezza dell’importanza di questo voto. Non solo per la Sardegna, ma anche per il Pd e per il paese. Ha pure assistito alla campagna elettorale del centrodestra.

Come la giudica?
«La parola è ‘arrogante”. Berlusconi ha nominato una specie di vicerè e ha avviato un’azione di conquista della Sardegna mettendo in campo tutte le sue ammiraglie, cioè le televisioni. Non è venuto da noi come leader politico, ma come capo del governo, esibendo la forza del suo potere economico e del potere dello Stato. Macchine blindate, città bloccate e, accanto, come una body guard, il suo opaco aspirante viceré Ugo Cappellacci. E poi gli insulti all’avversario, l’irrisione».

Ma c’è molta preoccupazione per il risultato di queste elezioni. Se lo si dovesse prevedere in proporzione alle presenze televisive dei due candidati, si dovrebbe considerare la partita già persa.
«Non voglio nemmeno pensare a questa ipotesi: segnerebbe per la Sardegna una sorta di mutamento antropologico. A parte le esibizioni di potere, e a parte la ricerca clientelare del voto per la quale si sono attivati diversi personaggi locali, il centrodestra non ha prodotto alcun dibattito politico. Se chiediamo in giro quali sono i loro progetti, nessuno è in grado di rispondere. E questo che mi fa pensare che daremo a Berlusconi un primo schiaffo. Uno schiaffo che risuonerà in tutta Italia. Dimostreremo che non è invincibile».

Il rumore sarà avvertito anche nel Partito democratico.
«Sì, piacevolmente. Perché l’esperienza di Soru è una sintesi di quello che il Partito democratico dovrebbe essere. Il suo governo in pochi anni ha cambiato strutturalmente la Sardegna. Per trovare qualcosa di simile bisogna tornare indietro di più di quarantanni, al tempo del piano di Rinascita. Ci siamo messi in sintonia con le linee di mutamento della politica economica alle quali l’intero paese dovrebbe guardare: la conoscenza, la valorizzazione delle risorse identitarie, il Mediterraneo. Oggi 3200 ragazzi sardi sono in giro per il mondo grazie al progetto ‘master and back. La Regione paga gli studi all’estero e loro si impegnano a tornare a lavorare per le imprese sarde. Poi la trasparenza, con tutti gli atti regionali subito disponibili on-line. Veltroni si riferiva anche a questo quando ha parlato della Sardegna come di “un laboratorio”».

Per il Pd questo “laboratorio sardo” è stato molto turbolento
«Il partito è stato attraversato da una reazione di tipo conservatore. Si è rischiato di perdere il senso della direzione e Soru ha chiesto un chiarimento. Veltroni, in quella fase, ha deciso di sostenerlo in modo netto. E stata una delle sue scelte più convinte e decise. Proprio perché l’esperienza sarda delinea un modello di partito per il quale è essenziale scommettere sul futuro. Lo stesso profilo di Soru, d’altra parte, lo delinea: non è un ex».

In effetti per riassumere l’opposizione interna a Soru, bastano quelle due letterine: ex.
«Credo infatti che Veltroni dovrebbe alzare con più decisione le vele verso il futuro. Anche a costo di rischiare un palese dissenso interno e le insidie che possono venire dai frenatori. Mi riferisco a quelli che ancora pretendono di mettere le biografie personali davanti alle scelte politiche. C’è la tentazione di considerare il Pd come il proseguimento dei vecchi partiti e di negare che siamo nati a partire dal riconoscimento del bipolarismo come schema ineludibile. Se il capo di una giunta è scelto direttamente dai cittadini deve poter governare, poi sarà chiamato a rispondere delle sue scelte. L’alternativa è una “anatra zoppa” elevata a sistema».

Per Veltroni vale lo stesso principio?
«Sì. Nel partito c’è una certa difficoltà ad abituarsi a quest’idea che, invece, è una conseguenza necessaria delle primarie: se scelgo un leader gli affido un mandato che vale per un ciclo politico, non per un trimestre».

Alla fine del braccio di ferro interno al Pd, in Sardegna è stato introdotto il limite dei due mandati e, con esso, un forte rinnovamento delle liste. Considera anche questo un modello da estendere al Pd nazionale?
«Credo che in generale il rinnovamento dovrebbe avvenire col consenso. Ma ci sono fasi di transizione, e ne stiamo vivendo una molto importante, nelle quali occorre accelerare il rinnovamento anche, come in questo caso, con delle forzature formali».

E le primarie?
«Penso che le primarie siano essenziali per un partito a vocazione maggioritaria. Si è spesso, e a sproposito, ironizzato su questa definizione che è, invece, una conseguenza inevitabile del bipolarismo. In parole semplici, significa che il partito non guarda solo a chi l’ha votato ma a chi potrebbe votarlo. E dunque si pone il problema di cosa si può fare per l’intera società. E la condizione per una vera alternanza ed è anche il sogno di una generazione che ha conosciuto la patologia di una frammentazione totale accompagnata dalla presenza di partiti troppo pesanti».

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