La Nuova Sardegna, 24/02/2009
Antonello Soro, capogruppo del Partito democratico alla Camera dei deputati, non è stato tra i primi sostenitori di Renato Soru e alle elezioni primarie del 2007 si è schierato con Antonello Cabras nella convinzione che occorresse distinguere tra mandato politico e mandato di governo. Nell’ultima parte della legislatura regionale si è battuto con energia a favore della ricandidatura del governatore e ha duramente attaccato i dissidenti. Dalla sua postazione nazionale ha seguito contemporaneamente le elezioni regionali e la crisi del Pd veltroniano.
Antonello Soro, si aspettava la sconfitta?
«Per il distacco è stata una vera sorpresa».
La temeva?
«Era una delle possibilità, come sempre».
Cosa avete sbagliato?
«Certamente a non coglierne le dimensioni».
I sondaggisti non vi hanno aiutato?
«Ancora il giorno del voto davano Soru avanti su Cappellacci».
Com’è stato possibile?
«Una cantonata. Il bello è che hanno la pretesa di illuminare quotidianamente i comportamenti politici».
E com’è possibile che la politica sbagli le previsioni in questa misura?
«Nella società sarda ci sono stati cambiamenti sociali più profondi di quanto non abbiamo saputo leggere».
E dalle urne cosa avete scoperto?
«Che la Sardegna non è più un’isola per comportamenti sociali, valori dominanti, omologazione di stili di vita».
Si riferisce al berlusconismo dilagante?
«Sì. Ha dimostrato di saper trovare consenso forte e diffuso anche qui. Il dato più clamoroso è il Sulcis».
Lei come spiega un risultato così negativo per il Centrosinistra sardo?
«L’analisi di una sconfitta va sempre fatta con cautela e senza fretta di arrivare alle conclusioni».
Ma l’unico motivo è davvero il berlusconismo?
«No, non basta a spiegare la sconfitta».
E allora?
«Hanno concorso una serie di fattori, gli errori di chi ha perso, gli atteggiamenti non virtuosi».
Il voto ha bocciato anche il progetto avviato nel 2004?
«No. La sconfitta non mi porta a dire che il progetto interpretato da Soru fosse sbagliato».
Cosa salva?
«I capisaldi sono di straordinaria attualità per qualsiasi strategia anticrisi, in particolare per il Mezzogiorno e le isole».
Quali scelte di fondo restano attuali?
«Le politiche sulla conoscenza, le risorse identitarie, l’ambientalismo moderno, il Mediterraneo, l’efficienza della pubblica amministrazione».
Vuole dire, quindi, che non siete stati capaci di far capire ai sardi la validità del programma?
«Credo che Soru abbia sofferto, e lo dico senza spirito polemico, di un prolungato marketing negativo della sua coalizione e del suo partito».
Che significa?
«Molti sardi hanno scoperto solo in campagna elettorale la portata del lavoro fatto e lo hanno scoperto direttamente dal presidente che è andato in giro per i paesi».
Vuol dire che ormai era troppo tardi?
«Proprio così».
Lei assolve Soru?
«Non mi sfuggono le responsabilità che possono essere attribuite anche a lui».
Quali, ad esempio?
«Il presidente guida la squadra e se la squadra non è coesa…».
Quanto ha pesato la crisi del Pd?
«Quella dell’ultimo anno del Pd sardo è una storia grottesca. Certo ha pesato».
Per gli scontri?
«Ma perché erano lacerazioni senza scopo, contrasti quasi tribali tra pezzi di partito, il tutto in assenza di uno sbocco positivo possibile».
A proposito delle divisioni interne, Soru non ha commesso errori?
«Serve una riflessione compiuta, ma non ho mai negato anche le sue responsabilità».
Quali responsabilità?
«La prima è quella della sua candidatura alla segreteria regionale».
E’ stata un errore che ha condizionato tutto il resto?
«Sia chiaro che nella bilancia delle responsabilità considero più grave quella della dirigenza che ha contrastato le politiche del presidente in modo palese o mascherato».
Teme che quel conflitto possa condizionare anche il futuro del Pd sardo?
«Sarebbe una sciocchezza pensare a ritorsioni o rinnovare le polemiche che ci hanno condotto a questa dura prova. Tutti abbiamo il dovere di grande disponibilità verso gli altri e di un supplemento di generosità verso il partito».
Come giudica il fatto che Soru abbia deciso di restare in politica?
«Sarebbe assolutamente sbagliato il contrario».
Qual è ora il suo ruolo?
«E’ giusto che rimanga per difendere una politica che è amcora attuale e per per rispetto verso i cittadini e la passione degli elettori».
E nel partito?
«Soru è una personalità di grandissimo livello per la Sardegna e per il Pd. Insomma, tutti insieme dobbiamo rimetterci in marcia superando l’amarezza e preparandoci a vincere la prossima volta».
Antonello Cabras, nell’intervista alla Nuova , ha detto che già nel 2007 aveva colto la crisi del Centrosinistra sardo e aveva proposto di rafforzare e allargare la maggioranza, ma che altri avevano sostenuto che per vincere sarebbe bastato il lavoro della giunta. E così si dimise. Lei cosa risponde?
«Non mi pare che il problema fosse quello che dice Cabras».
Qual era?
«Era il rapporto tra il presidente della Regione e la sua maggioranza in consiglio regionale e nel partito».
Il conflitto sui superpoteri e il decisionismo?
«In Sardegna più che altrove c’è stata insofferenza per il ruolo del presidente eletto dai cittadini e un ritardo nell’adeguarsi alla nuova forma di governo».
Con quali conseguenze?
«Una dissociazione che poteva e doveva essere evitata. Altro che, Cabras ha molte responsabilità».
Lei pensa che il commissariamento del partito sardo sia ancora necessario o che l’assemblea regionale, come ha fatto l’assemblea nazionale, possa eleggere subito il nuovo segretario?
«Passoni è stato molto bravo: in questi giorni sta esplorando la possibilità di concludere presto il suo lavoro in un clima di generale condivisione del percorso congressuale, senza improvvisazioni e senza nuove lacerazioni».
Sulla sconfitta sarda ha influito anche la crisi del Pd nazionale?
«Non ho difficoltà ad ammettere che il progetto ha registrato un andamento tormentato, per molte ragioni, alcune delle quali oggettive, come quella di non aver fatto in tempo a radicarlo in territorio per via delle elezioni politiche anticipate. In Sardegna c’è però una condizione ancora peggiore, qui il partito proprio non esiste. Non ci sono neanche gli organi territoriali, ci si è trastullati nell’assemblea regionale rinviando sempre ogni scelta».
Per quali motivi questa situazione?
«Più di tutto ha pesato quel virus divisivo che ha ucciso l’Unione. E il nuovo partito che sembrava tirato da mani invisibili verso il passato, le biografie dei protagonisti risultate più importanti del progetto».
Perché molti elettori vi hanno tolto la fiducia?
«Nei tempi di crisi la gente cerca dalla politica una risposta di coesione, sicurezza e capacità di decidere. Noi abbiamo trasmesso indecisione».
Come giudica le dimissioni di Veltroni?
«Un atto di coraggio, hanno dato la scossa».
L’elezione di Franceschini?
«Sentendo la sua relazione, la risposta dell’assemblea nazionale e la partecipazione emotiva, ho avuto l’impressione che possiamo farcela».
C’è ancora tempo per rimettere in marcia il progetto?
«Il nostro è un progetto che ha bisogno di tempo, con un’orizzonte che va oltre le prossime elezioni».
Quando tornerete a vincere?
«Siamo consapevoli della forza che ha oggi la destra e non dobbiamo illuderci che per vincere bastino parole magiche».
Dopo il voto sardo, delle due l’una: o ci si rassegna o si reagisce. Lei?
«Guai a rassegnarci».
Come reagire?
«Occorre cambiare registro, linguaggio, schemi di lettura sociale. E lavorare sodo e in profondità. In Sardegna e dappertutto».
C’è chi vi accusa di aver sbagliato a rincorrere il nuovismo.
«Semmai possiamo essere rimproverati del contrario, cioè di aver avuto paura di innovare sul serio».
Cosa avreste dovuto cambiare e che non avete cambiato?
«Avremmo dovuto lasciarci alle spalle il passato. Un partito moderno deve essere rivolto al futuro con idee nuove».
Ottimista?
«Abbiamo il dovere di essere ottimisti».
Teme la scissione?
«E’ una categoria anacronistica, la scissione non è mai stata in gioco».
Eppure se ne parla, con nomi e cognomi.
«Personalità mosse dalla vanità, prive di consenso e destinate a non avere ruolo nel Pd. Chi parla di scissione non ha idea di che cosa è il Pd».
E’ davvero in grado di unire le diverse anime?
«Un partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare non può non avere pluralità di culture».
Ma il problema è quello di amalgamarle. Come riuscirci?
«Solo con un progetto rivolto al futuro».
L’unificazione è però molto in ritardo.
«Nei gruppi parlamentari è più avanti che nel partito, tra gli elettori ancora di più».
Come fa a dirlo?
«Guardi i candidati vincenti alle primarie o i voti di preferenza nell’isola. Non conta più la provenienza partitica».
Voi della Margherita avete fatto quasi il pieno in Sardegna ai danni dei Ds.
«Io non sono della Margherita, sono democratico».