Il rinnovamento non può essere solo una promessa

Il Popolo, 1/11/1993

 

In Sardegna è nato il Partito Popolare per iniziativa e per adesione di chi considera conclusa ancorché non rinnegata la storia della Democrazia Cristiana.
Abbiamo scelto di essere il Partito Popolare per ritrovare l’origine della nostra presenza, la motivazione più vera al nostro impegno.
Ci troviamo dentro il ciclone di una straordinaria congiuntura politica.
Il voto del 21 novembre ha reso visibile, misurabile la crisi della Democrazia Cristiana di cui non era difficile avere consapevolezza.
E’ in fondo per quella consapevolezza che abbiamo deciso di anticipare, di precorrere un fatto politico.
In Italia – ma anche in Sardegna – si è espresso un voto contro i partiti di governo, considerati, in una approssimazione umorale e rancorosa, come il luogo abitato dal potere corrotto e inefficiente, dai partiti che hanno declinato il vecchio sistema politico.
Il voto radicale, irrazionale, protestatario, esasperato, gridato contro i partiti di governo è forse ingeneroso, è certo improduttivo di una nuova progettualità e di una matura governabilità: ma segna comunque, oggettivamente, una severa sconfitta.
Da questa sconfitta dobbiamo partire vincendo i sentimenti di delusione e l’inclinazione alla rinuncia.
Se è vero che abbiamo incominciato un processo di rinnovamento, dobbiamo ammettere che esso non è apparso chiaro, decifrabile dalla gente.
E quindi il primo compito che abbiamo non è quello di tornare sui nostri passi, ma invece di essere più decisi, di accrescere l’iniziativa politica, di rendere più celere la transizione, di far comprendere le nostre intenzioni.
Serve un di più di atti, di comportamenti e un meno di incertezze e di imbarazzo.
Se la domanda sociale e politica emersa il 21 di giugno è una domanda di cambiamento forte e inarrestabile, non possiamo corrispondere con un’offerta politica che appaio vecchia e intensamente collegata al passato.
Il nostro compito è tutt’altro che semplice: e l’esito non è scontato.
Si è posto, con maggiore insistenza dopo il voto di domenica scorsa, il problema di una più marcata definizione del nostra carat¬tere, della nostra dislocazione nella geografia politica.
Molti chiedono una scelta risoluta tra una posizione di partito conservatore e una posizione di partito riformista e popolare; altri affermano o negano la prospettiva di un centro al quale dovremmo ambire.
A me sembra che noi non abbiamo difficoltà a definire e riconoscere la nostra identità.
Siamo un partito laico, di ispirazione cristiana, che ha le sue radici – come dice Sorge – nel centro della società civile, orientato ad aggregare il consenso intorno ai valori che sono cristiani ma coincidono con quelli laici della nostra costituzione.
Un partito che si richiama alla dottrina sociale della Chiesa non pur essere un partito conservatore.
Quando penso alla condizione della Sardegna, mi chiedo cosa dovremmo conservare. Gli squilibri sociali, le ingiustizie, le marginalità che uno sviluppo disarmonico ha aggiunto a quelle antiche?
In Sardegna c’è da conservare l’identità culturale e l’ambiente, proprio quelli che i sacerdoti del nuovo liberismo vorrebbero sacrificare.
Insomma, oggi più che mai dobbiamo rendere esplicita, e insieme difendere la nostra idea di democrazia che sopravvive, in una congiuntura nella quale sembra prevalere solo l’esclamazione e la demagogia, il giustizialismo.
Dobbiamo difendere la nostra idea di una democrazia che respinge la cultura dell’egemonia di cui è pervasa tanto la sinistra quanto la nuova destra italiana.
Oggi più che mai, con un capitalismo aggressivo e totalizzante nel controllo delle risorse industriali, finanziarie, tecnologiche, pericolosamente tentato a monopolizzare il circuito delle informazioni, oggi più che mai dobbiamo riscoprire la concezione della politica come riscatto sociale, come occasione per incardinare nel diritto la cultura della libertà e della dignità dell’uomo.
Pensiamo ad una democrazia dove lo Stato non sia un intruso che violenta il dispiegarsi delle tante autonomie presenti nella società moderna, ma un luogo di garanzia e di regola delle libertà. Noi crediamo che sia possibile coniugare sviluppo e solidarietà, efficienza del sistema e occupazione.
E questo bisogno di una nuova sintesi solidaristica lo avvertiamo con più nettezza in Sardegna.
Ai molti amici che in questi giorni hanno subito la tentazione di drammatizzare il nostro dibattito interno voglio ricordare la relatività di alcune scelte che oggi ci appassionano.
Penso al dramma di una generazione che invecchia senza lavoro, penso ai comuni dell’interno che si spopolano, perso alla tragedia di quei giovani di Nuoro e di Sassari che per disperazione nelle scorse settimane hanno scelto il suicidio.
Avremo modo, nei prossimi giorni, di definire insieme ai contenuti programmatici, i modi e i tempi di una iniziativa politica in vista delle elezioni.
Io non credo che l’esito della competizione possa dirsi scontato: molto, ancora, dipenderà da noi, dalla nostra capacità di essere un riferimento chiaro e affidabile per i nostri concittadini, un alleato ambito tanto quanto sarà credibile la nostra volontà di interpretare il nuovo nel segno della nostra ispirazione.
Il nostro problema non è dunque quello di occupare il centro per una nostra certificazione: e piuttosto quello di rendere visibili i contenuti di una politica che sia persuasiva per tutti quelli che non si sentono soddisfatti dalla scelta tra una destra reazionaria e neo-fascista e una sinistra ancora intrisa di cultura comunista.
Ma noi più che per una opposizione o per un diniego dovremo ricercare il consenso per quello che siamo, per le nostre idee e per gli uomini che sapremo esporre nella competizione.
Dovremo rintracciare i modi per una convergenza con tutti quelli che hanno comune ispirazione e comune ambizione. Per questo penso prima di tutto ai popolari per le riforme di Mario Segni.
Ma dovremo ricercare la convergenza, dentro o fuori dall’impegno che in questi anni hanno ritenuto inabitabile il partito delle correnti e delle azioni, tutti quelli che hanno trovato insopportabile la permanenza in un partito che aveva declinato la politica come gestione del potere.
Riusciremo in questo intento se sapremo, da subito, cambiare rotta.
Il nostro partito dovrà fare fin dai prossimi mesi uno sforzo per disoccupare le istituzioni, per interrompere ogni nesso di contiguità che non sia trasparente.
Dovremo essere più impegnati nella raccolta della domanda sociale che non piuttosto nella nomina di consigli di amministrazione.
Per questo occorre un impegno generoso e qualche rinuncia di personale convenienza nel nome di una generale necessità.
Dovremo dare un segnale chiarissimo di discontinuità politica con l’esperienza che riteniamo debba dirsi conclusa.
Un nuovo partito sarà tale se avrà una sua politica, un suo programma: ma anche se saprà segnare la discontinuità nelle dirigenze.
Il rinnovamento non può essere solo una promessa dovremo praticarlo con serenità, allontanando quel clima di resa dei conti che ogni tanto riecheggia nelle nostre riunioni.
Occorre stabilire delle regole non tanto per certificare una volontà timida e incerta ma per segnare una tendenza, uno stile, una cultura: quella che vuole negare per il futuro l’idea della politica come mestiere.
Ma per il presente, per i prossimi appuntamenti, se il Partito popolare è davvero una formazione nuova, nessuno degli attuali eletti pur sentirsi fin d’ora candidato.
Saranno i nuovi gruppi dirigenti a stabilire le scelte attraverso ogni possibile consultazione di base.
Dobbiamo sforzarci di pensare ad un processo di ricambio consensuale, frutto di una comune volontà e di una comune diffusa consapevolezza.
In Sardegna andremo avanti nel nostro programma di costituzione del Partito popolare.
Abbiamo deciso di partire in un momento di grande difficoltà, con qualche anticipo sul tempo nazionale del Partito, con qualche ritardo rispetto ai tempi della società civile: la partenza in queste condizioni comporta imperfezioni e approssimazioni.
Ma imperfezioni e approssimazioni sono comunque meglio dell’inerzia e dell’immobilismo.

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