Un articolo sul “Popolo” del 16 gennaio ’96. I popolari tra il recupero della loro tradizione e le sfide di una società profondamente cambiata, ma ancora segnata da squilibri e disuguaglianze.
Non si può dire che la politica italiana offra in questi tempi un esempio di trasparenza.
Anche il cittadino più paziente ha rinunciato a comprendere tutti i mutamenti repentini di posizione, le minacciose dichiarazioni di ultimatum, la giostra della scadenza elettorale che da la sensazione di un orizzonte variabile nell’atmosfera del nostro Paese.
Ma quando tutto sembra più confuso e la politica appare dominata da un tatticismo incomprensibile e lo spettacolo delle parole e dei gesti prevale sul contenuto delle scelte e sulla coerenza dei comportamenti, allora bisogna ritrovare la bussola delle nostre ragioni.
Non c’è dubbio che noi abbiamo vissuto più di qualsiasi altro partito una storia sofferta di lacerazioni, di divisioni.
Da qualche anno la nostra storia registra sul suo corpo di iscritti, di elettori (di quelli che sono e di quelli che ci hanno lasciato), registra gli effetti di una transizione così traumatica da avvertirla come un rivolgimento interminabile.
Siamo entrati – tutti, anche quelli che considerano con distacco le vicende politiche, nella presunzione di esserne fuori e sopra, – dentro un tunnel lunghissimo –
Le parti politiche, l’insieme dei luoghi della politica, la toponomastica, tutti hanno subito un cambiamento profondo.
E tuttavia nessuno può dire che oggi sia chiara una nuova architettura di riferimenti e di appartenenza.
Molti milioni di italiani rimpiangono l’equilibrio degli anni passati, molti altri -credo più numerosi – nutrono l’ambizione di una nuova fase politica nella nostra democrazia in cui le forze in campo siano ordinate secondo le ragioni vere del confronto politico.
A me pare che cominci a declinare quella spinta radicale che negli anni passati ha fatto prevalere tutti gli ismi manichei, secondo una lettura nella quale il nuovo era sempre migliore del vecchio, la società civile era sempre migliore della politica, le tesi gridate erano preferibili ai ragionamenti complessi e dubbiosi della moderazione, le estreme erano preferibili al centro.
Il processo di esaurimento della fase radicale è certamente incominciato ancorché non concluso.
Dobbiamo fare una premessa.
Nessun ritorno al passato è possibile, perché il cambiamento più profondo ha interessato e interessa la società prima ancora della politica.
E’ cambiata l’economia, l’organizzazione del lavoro, la cornice internazionale, è cambiato il nostro livello di partecipazione ai gusti e alle culture del mondo, è cambiato il nostro grado di integrazione nella società universale.
E questo cambia profondamente la domanda politica degli italiani.
Il futuro è ricco di incognite: ma possiamo ragionevolmente percepire le tendenze e intorno a queste aggiornare la nostra offerta politica.
La corsa per lo sviluppo, la competizione sempre più spinta nel mercato globale rendono ineludibili misure sempre più severe per impatto sociale, misure destinate ad allargare la diseguaglianza e incrinare la coesione sociale.
Una delle questioni aperte nelle società sviluppate è rappresentata dall’emergere di un alto tasso di diseguaglianza che genera un conflitto non più latente tra i segmenti sociali inclusi nel sistema e in quelli esclusi.
In Italia esistono circa 8 milioni di poveri – in larga misura esclusi dalla produzione e dal lavoro, esclusi in sostanza anche dalla partecipazione politica.
Non votano e nessuno si candida veramente a rappresentarli. Questo fenomeno e più sensibile nelle aree urbane, dove più diffusa è la condizione di uomini e donne del tutto estranei al sistema delle relazioni di cittadinanza.
Ma una fascia sociale molto estesa – il vecchio ceto medio che ha sviluppato negli anni passati un alto tenore di vita rispetto agli omologhi europei, con un alto grado di consumi fissi e irrinunciabili, che ha coltivato finora una prospettiva di espansione, di crescita, di accesso ai livelli superiori della gerarchia sociale – ora, da qualche anno, avverte che il ciclo espansivo è finito, ha difficoltà a mantenere lo status, sente che le prospettive per se e per i suoi figli sono difficili.
I gruppi sociali in declino, quel terzo della popolazione che negli ultimi 10 anni ha visto calare costantemente i propri redditi reali, sono il terreno di cultura in cui si sviluppano sentimenti di ostilità contro gli immigrati, contro tutte le forme di assistenza per i cittadini senza lavoro, per quella classe inferiore che sembra aver perso ogni diritto di cittadinanza.
Intanto la dinamica dello sviluppo efficientista e fortemente arricchito dalle tecnologie espelle non solo i lavoratori manuali ma anche i colletti bianchi.
Nel mondo del lavoro è avvenuto un cambiamento profondo: non solo in agricoltura ma anche nell’industria e nel terziario meno della metà del personale impiegato produce più del doppio dei beni.
Molti cinquantenni vengono considerati esuberi, non più utili. Resisteranno o diventeranno le pantere grigie?
E la disoccupazione in Europa segna cifre intorno ai 20 milioni, ma nelle regioni meridionali si concentrano tassi del 15 e del 20%.
Ma la cosa più significativa e più grave consiste nel fatto che le persone realmente svantaggiate non rappresentano – come avvenne alla fine del secolo scorso con il mondo operaio – una nuova forza produttiva con cui si deve comunque fare i conti.
Non sono decisivi – forse neppure incidenti – nella produzione della ricchezza nazionale, nell’evoluzione economica delle aziende, sul risultato elettorale.
Non si è ancora valutato per intero l’impatto del crescente astensionismo sulla qualità delle nostre democrazie.
In tutti i paesi sviluppati viene messo in discussione il destino dello Stato sociale.
Nel nostro Paese si discute se sia possibile ridurre ulteriormente le spese per contenere la crescita della pressione fiscale: e il problema non sarà estraneo al programma economico del prossimo governo. Ma non sarà indifferente per la qualità della vita di molti milioni di italiani.
La gente ogni qual volta è colpita dalla crisi economica e ad essa connette un rischio per il proprio stato sociale mette in discussione gli assetti delle istituzioni, in particolare identifica le classi dirigenti con le istituzioni e coltiva un sentimento di ribellione verso entrambe.
Quasi tutti i paesi europei hanno raggiunto un tasso di sviluppo che apre la strada ad alcune scelte assolutamente difficili: per restare nel sistema della competizione devono adottare misure destinate a danneggiare gravemente la coesione delle rispettive società civili. Quando i governi non riescono a trovare il consenso intorno a queste misure coltivano la possibilità di un cambiamento delle forme di partecipazione, di solito in direzione di una riduzione delle libertà.
Il vero problema delle società sviluppate in questo fine secolo è la combinazione di tre fattori decisivi nella qualità sociale dei nostri Paesi: il benessere economico, la coesione sociale, la libertà politica. La sintesi appare difficile. E il dibattito intorno a questi temi assolutamente carente nel nostro dibattito politico.
E tuttavia un partito che si richiama alla tradizione dei cattolici democratici non può rinunciare all’ambizione di trovare una sintesi tra benessere economico, coesione sociale e libertà politica.
Ma questi temi e queste sfide rivelano quanto siano inadeguate a comprendere e rappresentare la complessità di questo nuovo mondo le vecchie categorie della destra e della sinistra, del socialismo e del liberalismo.
Nelle nostre riunioni io sento ancora parlare di comunisti e di fascisti, di tante sigle che non corrispondono più ad alcuna storia attuale: dobbiamo avere l’ambizione di una politica che guardi davanti, che sia coraggiosa, che sappia rintracciare il filo della nostra ispirazione dentro il labirinto della modernità.
Abbiamo scelto di essere un partito popolare, laico, di ispirazione cristiana per una scelta di coerenza rispetto alla nostra migliore tradizione.
Il nostro orizzonte va oltre la prossima tornata elettorale – la stessa scelta di coalizione con il PDS ha il tempo di questa stagione e di questa fase, ma non conclude e non esaurisce la nostra prospettiva.
La vera sfida è spostata di qualche anno. Quando saremo usciti dal tunnel della politica radicale, la politica italiana sarà assai più vicina a quella degli altri Paesi europei, avrà gli stessi problemi, avrà regole assai simili, avremo rimosso emozioni e risentimenti legati al nostro passato recente, avremo davanti le sfide di una società complessa ed esigente.
Allora dovremo mettere in campo le ragioni dei cristiani impegnati in politica, indicare una meta e ricercare la convergenza di tutti quelli che la condividono.
Mi pare un tema stimolante per un congresso.