L’indispensabile riforma delle istituzioni non può essere sganciata dal processo politico compiuto dal Paese in questi decenni. L’esame del problema, in un articolo sull'”Unione Sarda” del 12 febbraio ’95.
In questi giorni mi accade spesso d’essere severamente interrogato sulle ragioni dell’intransigenza dei popolari sulla questione delle Riforme, sul motivo di un così ostinato rifiuto del “Presidenzialismo”, il nuovo talismano della seconda repubblica.
Mi si rivolge l’accusa, nella mia qualità di deputato popolare, di essere responsabile di un possibile naufragio del governo di larghe intese a causa di tanta incomprensibile rigidità.
Mi si dice che occorre concedere qualcosa sul terreno delle intenzioni riformatrici almeno nei termini di “semipresidenzialismo”.
In fondo “così fan tutti”.
Devo trarre almeno due considerazioni da queste premesse.
Primo, il mio partito ha una straordinaria incapacità a rappresentare con chiarezza la propria linea e questo è per noi un grosso guaio.
Secondo, i talk show televisivi non hanno affatto avvicinato la politica alla gente comune ma hanno ottenuto il risultato di deformare la politica, riducendola ad uno spettacolo nel quale il merito dei problemi diventa assolutamente marginale. Così può accadere che tra un “Porta a Porta” di Vespa, e “Rose Rosse” del Bagaglino non sempre sia chiaro qual è la parodia.
Eppure a me non sembra così difficile riassumere la nostra posizione.
Siamo convinti che un rinnovamento serio delle norme costituzionali sia necessario e per quanto riguarda la forma di Stato e per la forma di Governo.
Pensiamo che due principi debbano essere irrinunciabili: la funzione rappresentativa del Parlamento e l’Unità nazionale.
Dentro questi limiti tre obiettivi: una più decisa articolazione dello Stato in senso federalista, un rafforzamento dell’esecutivo, un meccanismo che favorisca la stabilità dei governi.
Se questi sono obiettivi largamente condivisi dalle diverse forze politiche, può ragionevolmente delegarsi al Parlamento la definizione degli strumenti utili per conseguire il miglior risultato: nessuno può sostenere che questi obiettivi siano conseguibili attraverso un solo strumento.
Noi pensiamo ad esempio che la stabilità vada incardinata intorno alla scelta della coalizione e del suo leader piuttosto che intorno alla figura del Capo dello Stato, così come avviene in Germania.
Altri pensano che lo strumento migliore per conseguire l’obiettivo della stabilità vada ricercato attraverso l’elezione diretta del Capo dello Stato, secondo il modello francese, nel quale l’eletto presiede il Consiglio dei Ministri, può sciogliere il Parlamento quando non sia coerente alla sua politica, può rivolgersi direttamente alla piazza attraverso l’arma del Referendum ect.
Noi pensiamo che sia un bene la diffusione e la separazione dei poteri, altri credono preferibile una straordinaria concentrazione di potere nella persona di un solo uomo.
Questa seconda posizione sembrerebbe essere in Italia largamente maggioritaria.
Noi ne prendiamo atto e rivendichiamo unicamente la libertà di contrastarla in Parlamento con l’uso delle nostre ragioni.
Siamo favorevoli ad un governo capace di garantire il perseguimento delle Riforme e insieme affrontare i problemi dell’economia, dell’occupazione, dell’ingresso nell’Unione Europea.
Riconosciamo che sia legittimo per il Presidente del Consiglio richiamare come dato oggettivo l’esistenza di una prevalenza parlamentare in senso presidenzialista, neghiamo che la materia delle riforme costituzionali possa far parte dei compiti del governo essendo per sua natura, in ogni angolo del mondo civile, una prerogativa parlamentare.
Fini sostiene, in buona compagnia, che il “presidenzialismo” debba far parte del programma di governo, noi pensiamo che in questa impostazione risieda il pericolo di uno sconvolgimento delle regole elementari della democrazia parlamentare. Siamo distanti su una questione di principio che riguarda i contenuti della nostra identità politica: su queste cose non ci si adegua, ci si oppone. Forse questo è un modo di fare politica da vecchia repubblica, ma sulle questioni di principio la scala sulla quale occorre misurare vecchio e nuovo non si consuma in una stagione.