L’Italia va bene

La Camera approva il Dpef. Il ministro del Tesoro Visco annuncia che l’economia dell’Italia è la più forte nell’area dell’euro. La ripresa appare durevole, il risanamento dà i suoi frutti. Per Silvio Berlusconi il Dpef è “tecnica elettoralistica”, ma il leader di Fi rinuncia a spiegare i motivi del suo dissenso ai giornalisti perché “fa troppo caldo”.
Il Popolo, 28.7.2000

Lo ha scritto su queste colonne Castagnetti, lo ha detto autorevolmente il presidente della Repubblica Ciampi: l’Italia va. E il Dpef che ieri la Camera ha votato contiene per intero le motivazioni, le ragioni più vere per questa fiducia. Non sorprende, dunque, il disappunto dell’opposizione, espresso anche in Parlamento, preceduto da quattro anni di sfide, dispute, stime affermate e contestate.
Esistono, invece, elementi di giudizio inoppugnabili. L’Italia sta bene.
Non lo diciamo solo noi. Parlano gli indicatori economici: dalle cifre del disavanzo alla misura del debito pubblico, dal tasso d’inflazione(che pure suggerisce una guardia sempre alta), alla creazione di 830 mila posti di lavoro, al tasso di crescita del Pil, tutti i dati segnalano con puntualità lo stato di salute della nostra economia.
Due risultati più di tutti occorre richiamare. La spesa per interessi sul debito pubblico è diminuita in valore assoluto di 62 mila miliardi (e naturalmente è destinata a diminuire ancora): da 202 mila miliardi, è passata a 140 mila. Si tratta com’è evidente di un peso ancora altissimo, un onere doppio rispetto a quello degli altri paesi con cui dobbiamo competere. Sono risorse sottratte alla disponibilità dell’economia. Ma segnaliamo un cambiamento assolutamente gigantesco nella struttura dei conti pubblici.
Il secondo dato è che le dismissioni di azioni dello Stato nel sistema economico hanno avuto un peso di 122 mila miliardi in quattro anni, un terzo circa delle privatizzazioni europee. Questo dato fa giustizia di tanti luoghi comuni cari a quegli oracoli con occhiali scuri. Bisogna continuare, coniugando i processi di risanamento con il governo delle politiche industriali del Paese per centrare l’obiettivo di un crescente allargamento della base capitalistica della nostra economia.
L’Italia partecipa, dunque da protagonista alla fase nuova di costruzione dell’Europa del ventunesimo secolo. Si è aperto un dibattito di grande profilo sul futuro dell’Europa e del ruolo dell’Italia in questo orizzonte.
Non abbiamo da dividerci tra custodi dell’utopia e alfieri del realismo. La sfida, la posta sta nella capacità di assumere e far assumere la dimensione dei nuovi confini economici come riferimento ineludibile dei nostri comportamenti, del nostro standard di competizione, delle nostre aspettative ragionevoli di garanzia sociale. In questo contesto, dobbiamo definire traguardi, percorsi, risorse, politiche. L’orgoglio per i risultati conseguiti non cancella la consapevolezza dei nostri doveri e dei nostri problemi. Dovere di proseguire nella politica di rigore e di rispetto della nuova costituzione economica europea, di quel patto di stabilità che ordina i fondamentali della nostra economia. Ma anche dovere di fare un passo avanti. La scelta europea deve diventare in modo esplicito l’elemento di identità dell’economia reale italiana: occorre che la competitività del sistema paese diventi obiettivo consapevole di tutti gli italiani, affinché sia evitata una separazione, un diverso senso di marcia, tra le grandi scelte annunciate e le questioni reali della vita degli italiani, i comportamenti reali dei pubblici amministratori, degli imprenditori, dei dirigenti, dei formatori, dei cittadini.
Dalla consapevolezza di questi doveri nasce l’identificazione dei nostri problemi. E questi ruotano intorno alla competitività della nostra economia, delle nostre imprese, della produttività del nostro sistema. In questo senso dobbiamo completare il processo di adeguamento e modernizzazione delle strutture amministrative, finanziarie e civili. Dobbiamo e vogliamo sviluppare il disegno di riforme della pubblica amministrazione, del lavoro, del fisco, del sistema di protezione e sicurezza sociale. Occorrono più formazione e più ricerca, occorre sviluppare il sistema di flessibilità del mercato del lavoro per allargare le opportunità, registrando al punto più alto il diritto di cittadinanza sul fronte della coesione sociale.
Noi non rimuoviamo questo problema. La produttività non può crescere senza un ulteriore cambiamento delle regole del lavoro. Siamo convinti, però, che questo cambiamento possa avvenire in un quadro non drammatico, che non cancelli le sicurezze sociali dei lavoratori acquisite in un secolo di battaglie civili. La coesione sociale è per noi riferimento ineludibile anche nella fase più esigente di rilancio della competitività, in quell’attraversamento del fiume rappresentato dal passaggio da un sistema iperprotetto e chiuso ad un sistema aperto e concorrenziale.
In questo contesto, sosteniamo che la famiglia può diventare soggetto attivo di produzione di servizi, di socialità, di ricchezza e di vitalità economica per la comunità e per il sistema territoriale.
Abbiamo proposto di incardinare sulla famiglia la parte più rilevante della manovra di riduzione della pressione fiscale.
Pensiamo che una riduzione del carico fiscale – che sia consistente e destinata a crescere nei prossimi cinque anni – deve risarcire tutti i cittadini per lo sforzo rilevante sostenuto nel periodo di risanamento della finanza pubblica e deve attivare processi virtuosi di ripresa di consumi e dello sviluppo.

PRIVACY POLICY