Un ponte di messina

Un ponte di Messina
Ichnusa, 01/07/1986

 

Il dibattito che si è recentemente tenuto al Consiglio regionale sugli indirizzi per l’intervento straordinario dello Stato in Sardegna (art.13 dello Statuto) si è svolto a livello alto, come da tempo non accadeva nell’assemblea regionale, e ciò non fa che aumentare il rammarico per non averlo potuto affrontare prima.

I due documenti, quello della Dc e quello della maggioranza che sostiene la Giunta, non solo costituiscono l’avvio del dibattito di questa primavera, ma sono anche gli indicatori più spietati di come l’orologio della discussione sulla rinascita si fosse fermato alla primavera del 1984. Vi si trovano intatti gli schemi del dibattito di quegli anni. Sono bastati due mesi di confronto per allontanarsi dalle premesse di quei due documenti, per mettere in discussione i loro schemi. Anche nell’ultima discussione consiliare sono emersi spunti nuovi.

Perché gli schemi e le analisi degli anni 1980-84 non sono attuali?
Bisogna richiamare le trasformazioni e le grandi tendenze che in questi ultimi anni sono andate maturando in Italia e in Sardegna.

Il divario fra il Centro-Nord e il Sud d’Italia non solo non è diminuito ma è andato crescendo. Risparmierà al lettore i dati del rapporto SVIMEZ sulla concentrazione dei disoccupati al Sud e la tendenza di questo fenomeno a divenire ancora più marcato nel prossimo futuro; la frammentazione del Mezzogiorno in realtà  disomogenee tra loro con aree forti e aree deboli che convivono, a fronte delle quali la risposta legislativa, anche quella nuova della legge 64 sul Mezzogiorno, non ha sufficienti elementi di indirizzo selettivo tali da consentire alle aree più deboli di recuperare il divario.

Emergono intanto con prepotenza i nuovi moduli dello sviluppo nazionale, tutti giocati sulla esaltazione del mercato, sul risanamento dell’impresa, con la selezione veloce della competitività , con l’aumento della produttività  e la stagnazione del prodotto: il tutto però in una cornice generale di riferimenti incerti, in una logica neo-liberistica intorno alla quale sta aprendosi nella politica nazionale un forte dibattito, in cui, però, il Consiglio regionale della Sardegna non è presente.

Va delineandosi, di fatto, un,autentica deregulation, un nuovo ordinamento materiale che semplifica procedure, che snellisce il momento decisionale, che cessa di programmare per settori e punta a incidere sui fattori capaci di attivare lo sviluppo.

E cambiata anche la fisionomia delle Partecipazioni statali che tanto contano nella economia della Sardegna, e alle quali invece si fa riferimento nelle nostre discussioni immaginandole statiche, immobili, come erano negli anni passati. Questo cambiamento è discutibile, può non piacerci, ma certamente si è verificato in questi anni. La legge 64 ha introdotto una nuova filosofia della presenza dello Stato nel Mezzogiorno e quindi anche nella Sardegna: ma in ordine al dibattito critico in corso sulla legge 64 il Consiglio regionale della Sardegna non è presente né in aula, né nelle sue espressioni esterne. E’ cambiato molto anche in Sardegna: e prima di tutto è cambiata la condizione culturale nella quale noi viviamo la nostra autonomia. Intanto la Sardegna, ed è questa forse la premessa più importante per i nostro confronto, non è più al centro dell’attenzione nazionale, non è in questo momento una “questione nazionale” nei termini nei quali lo è stata negli anni passati, nei termini ne quali fu sancita, con la presenza di Craxi in Sardegna.

Occorre che noi riproponiamo i caratteri della nostra specificità  che oggi non sono presenti non sono colti con immediatezza dalle forze politiche nazionali, dal Parlamento e dal Governo. Perché noi possiamo enfatizzare quanto ci pare l’articolo 13, ma se non è condiviso nella sua essenza, se non è attualizzato nella coscienza del Parlamento nazionale, esso cessa di essere un punto di forza e rimane soltanto il nostalgico richiamo a un qualcosa che appartiene al passato.

Eppure è, significativamente, la cosa più importante che la Sardegna, dal punto di vista del riconoscimento istituzionale, possiede.

Dobbiamo quindi attualizzare la questione sarda; e non basta richiamare gli indicatori economici, a disoccupazione e gli altri indicatori che pure ci vedono al vertice negativo d Paese, ma che di per sé non rappresentano un dato di specificità  sufficiente a rendere attuale l’articolo 13. Dobbiamo rilanciare e richiamare quelle condizioni antiche che abbiamo messo in archivio come se fossero marginali, ma che sono proprio quelle in ragione delle quali è consentito richiamare l’attualità  dell’articolo 13:

– l’insularità , che è la cosa più importante, che ci rende diversi nei panorama delle regioni del Mezzogiorno;

– e, ancora, il malessere, la società  del malessere, l’analisi e le valutazioni e i giudizi che la Commissione parlamentare di inchiesta ha fatto in ordine a questi problemi che sono di attualità. Non possiamo sprecare, mettere in archivio la relazione Medici, come un qualcosa che appartiene al passato: ma anzi dobbiamo rivendicare dallo Stato, dal Parlamento, un momento di verifica tale da riproporre all’attenzione politica nazionale quello che ha significato e che può significare ancora la conclusione di quella Commissione parlamentare;

– e, ancora, la nostra distribuzione territoriale con la densità  demografica più bassa nel Paese e l’assenza, in una larga parte dell’isola, delle precondizioni dello sviluppo:

– e, infine, il differenziale di produttività  che di tutte queste condizioni è la risultante e che a sua volta è responsabile primario del precipitoso e costante calo degli investimenti nella nostra Isola.

Ma ancora, che cosa è cambiato nella nostra condizione autonomistica in Sardegna? Va maturando l’idea che non siamo, allo stato, capaci di fare pieno uso delle nostre risorse e dei nostri poteri e che la ricerca di nuovi poteri e di nuove risorse in assenza di una forte riforma del nostro sistema è più una fuga in avanti, un alibi demagogico e populistico che una difesa autentica della nostra autonomia.

Va affiorando una rilettura critica della cultura dello sviluppo che ha sotteso la precedente legge di attuazione dell’art.13 dello Statuto.

Una rilettura critica senza la presunzione di giudizi a posteriori, perché quella legge è datata e la sua concezione risponde a un periodo, a un momento della nostra storia politica. O secondo piano di rinascita partiva dalla presunzione  che lo sviluppo fosse qualcosa di ineluttabile, che il progresso di questo sviluppo sardo o di quello nazionale fosse un qualcosa di irreversibile.

Si considerava avviato un processo in modo distorto talché compito della legge doveva essere non quello di un propulsore che determina il decollo, ma di un correttore di rotta.

Si ricordino gli obiettivi fondamentali: ridurre il peso della grande industria che costava troppo e che quindi andava ridimensionata spostando il tiro: valorizzare le risorse oca
rnoditcare gli squilibri interni ma nella logica e nella presunzione che lo sviluppo ormai fosse avviato.

S trattava, appunto, solo di correggere a rotta. La 288 partendo da queste premesse uturaii, non solo non riesce a correggere la rotta dello sviluppo, ma neanche a rnantenere i livello, se è vero che gli investimenti nei primi anni Ottanta rappresentano il 30 per cento di quelli del decennio precedente e che il reddito pro-capite, che negli anni Sattanta era pari all’8O per cento della media nazionale, calò di nuovo al 70 per cento e che la disoccupazione  quella che noi conosciamo: un quarto dei cittadini abilitati a lavorare non può lavorare, e il tasso di disoccupazione cresce più velocemente che in ogni altra regione meridionale.

La consapevolezza di questi risultati, l’analisi del presente sono condizioni sufficienti per fa nascere una nuova cultura dello sviuppo, per collocarci in un’ottica diversa rispetto al passato. Occorre però ragionare di conseguenza, non solo leggere questi indicatori, non solo prendere atto che questo è avvenuto, ma liberarci di alcuni schemi culturali della nostra autonomia, partecipati, sofferti, nobili nella loro elaborazione, rivoluzionari per certi versi, che sono costati anni di confronto politico in Sardegna, ma che non sono stati mai attuati nel rapporto con lo Stato.

Bisogna prendere atto che questi schemi oggi sono inadeguati, che bisogna laicamente pensare ad un rapporto diverso con lo Stato nei termini di una realtà  che è cambiata, allora emerge con chiarezza quali sono i problemi irrisolti nel nostro dibattito.
Qual è il progetto di sviluppo al quale la legge deve essere funzionale? Non vi è, nel documento della maggioranza, una risposta esplicita, e non è cosa da poco: non basta dire “autocentrato, autopropulsivo, integrato”. Queste sono delle affermazioni che al massimo possono avere la dignità  di cornice metodologica di un processo e di una strategia di sviluppo, ma non rappresentano una indicazione, un indirizzo, una linea, un progetto. In realtà  si rinvia al piano successivo, da concordare fra Stato e Regione, ribaltando in questo modo lo schema politico e culturale della legge 588 e della 268 che però avevano a monte un’elaborazione politico-programmatica che tendevano a realizzare.

Rinviare la definizione del progetto e dei suoi indirizzi significa allungare i tempi di efficacia della legge, che pure si ritiene urgente, entrando in una implicita contraddizione.

Sorge allora il dubbio che l’unica preoccupazione della maggioranza sia quella propagandistica di liquidare il problema, di trasferirlo al Parlamento, di passare in sostanza il cerino, indifferenti al risultato finale.

Questo dubbio è rafforzato dalla considerazione dei comportamenti della Giunta che hanno accompagnato questi due mesi di confronto politico sulla legge di attuazione dell’articolo 13. Intanto che si discute della legge sull’articolo 13, degli obiettivi ma anche della strumentazione attraverso la quale si può governare la Rinascita, si può governare la Regione, si può governare la solidarietà  fra Stato e Regione – e in questa strumentazione certamente non sono indifferenti gli enti locali -, non solo non si pensa a riformare gli enti regionali ma si anticipa, attraverso un sistema che noi democristiani continuiamo a chiamare di selvaggia lottizzazione, l’occupazione dei consigli di amministrazione degli enti. Non ci si dica che la lottizzazione è stata consumata anche nel passato perché questo non fa onore a chi oggi si è  proposto di essere alternativo al passato. Ma peggio è avvenuto per la gestione del piano straordinario, del primo stralcio della legge 64 e dei Piani integrati mediterranei, una gestione autoritaria, sostanzialmente antidemocratica passata sulla testa del Consiglio regionale ed anche della Commissione prog rammazione.

La Dc ha sollevato il problema nella sede più alta del Consiglio. Il Presidente del Consiglio regionale ci ha risposto, e dobbiamo dire che non siamo affatto soddisfatti della risposta.

L’ammissione della legittimità  della nostra protesta doveva provocare da parte del Presidente del Consiglio regionale comportamenti differenti, più incisivi, non semplicemente una affermazione di principio. L’esperienza della legge 64, del primo programma e dei Piani integrati rnediterranei, fa emergere, tra le altre cose, una totale disomogeneità  fra i due programmi che abbiamo avuto modo di conoscere a posteriori non solo per l’assenza di un progetto generale, ma anche perché c’è  una contraddizione implicita fra di loro: sono due schemi di programmazione differenti.

Ma ancora, tra i problemi irrisolti, forse quello più importante è l’impianto istiutuzionale sul quale poggia il documento che è stato portato in discussione, dove si traccia tutta una vecchia impalcatura indifferente all’ordinamento materiale esistente e vigente oggi sul versante dello Stato.

Si vogliono stabilire i rapporti fra la programmazione regionale e quella nazionale, ignorando che quella nazionale intanto è cambiata, che le Partecipazioni statali non sono più quelle che erano negli anni passati, che oggi la programmazione si verifica non per settori ma per fattori e intanto, però si continuano a ipotizzare dei comitati Stato-Regione che poggiano tutti su una programmazione nazionale per settori.

Verifiche parlamentari tanto complesse quanto impraticabili, una impalcatura istituzionale che non tiene conto delle nuove procedure di bilancio che sono in corso di definizione del Parlamento nazionale, sulla riforma della Presidenza del Consiglio.

Sono presupposti dai quali emerge con forza e con chiarezza che i punti irrisolti all’interno di questo dibattito sono tanti e grandi.

Altri problemi irrisolti: come si articola il collegamento fra la legge 268 e la legge nuova di attuazione dell’articolo 13? Non c’è nessun segnale di risposta a questo quesito che pure è il primo e il più elementare. La legge sull’art.13 si gioca su due versanti, un versante dello Stato e un versante della Regione, e noi dobbiamo insieme al ruolo dello Stato individuare il modo, gli strumenti nuovi attraverso i quali la Regione può rimediare le carenze dell’esperienza passata che le appartengono, per rimuovere le cause degli insuccessi denunciati, delle sofferenze di gestione propria. Ma queste cose ora occorre definirle, analizzarle, comprenderle; comprendere le ragioni del divario sempre più acuto tra la programmazione e l’attuazione dei programmi in Sardegna, che è il tratto costante delle esperienze passate.

Non è possibile pensare alla nuova politica di piano senza investire nella valutazione critica l’uso delle risorse proprie, dell’organizzazione, della legislazione che regola l’uso di queste risorse.

L’impalcatura burocratica viene riproposta tale e quale. Non è stata condivisa l’ipotesi di “Agenzia” che la Dc ha affacciato. Ma non basta dire no, bisogna prendere atto che occorre fare proposte alternative, una volta che si avverte che l’esigenza posta è un’esigenza legittima. La Dc non ha dei pregiudizi, non è  innamorata delle cose che propone, ma su queste vuole misurarsi, per costruirne delle nuove.

E’ ancora irrisolto il rapporto e il ruolo degli enti sub- regionali che non basta richiamare genericamente come soggetti di programmazione, soggetti di gestione. Bisogna definire il ruolo degli enti sub-regionali.

In sostanza si rischia di puntare ad una legge di principi, magari rivoluzionaria, di principi che restano astratti, che rinviano a momenti successivi di negoziato della Regione con lo Stato, che avverrebbe su un piano di decisa maggiore debolezza rispetto a quella del negoziato che la Regione stabilisce con lo Stato, in attuazione di un articolo che ha valenza costituzionale. Tuttavia alcuni spunti, alcune idee vanno emergendo nel dibattito. Per parte nostra abbiamo posto l’esigenza di tradurre lo schema: più vincoli per lo Stato, meno vincoli per la Regione in una legge moderna capace di produrre efficacia nella nostra società. Una legge che si articoli su due versanti nettamente definiti: un versante regionale e un versante dello Stato. Un versante regionale dove la Regione utilizzi per intero in libertà  i suoi poteri e le sue risorse, coordinandole in assoluta autonomia con le risorse comunitarie, statali, dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno; di quel fondo globale aggiuntivo, così come definito nel documento della Commissione, e cioè non fisso e quantiticato ma ancorato a parametri predeterminati. Una Regione quindi che gestisca senza vincoli tutti i suoi poteri e che, riformando rapidamente la sua struttura, sia dentro lo spirito e gli istituti della legge 64. A fronte di questo, un versante dello Stato, al quale dobbiamo richiedere interventi non principi.

lo credo che non sia più il momento di puntare sulle affermazioni astratte e di principio. Occorre smantellare alcune impalcature istituzionali che nelle cose sappiano essere del tutto inutili e puntare anche noi su quei fattori che possono condizionare positivamente il nostro sviluppo, sbloccare gli investimenti, eliminare il differenziale dei costi e di produttività, fare una legge che sia in sostanza, per quanto attiene i compiti dello Stato, lequivalente del ponte di Messina, usando una immagine che renda l’idea di quello che noi riteniamo serva da parte dello Stato. Interventi programmati in legge, che agiscano sui fattori, che agiscano sull’insularità, sul malessere, sul differenziale di produttività, sulle condizioni che specificamente rendono la Sardegna problema nazionale.

Quattro richieste, quattro fattori da aggredire con un intervento che sia programmato in legge.

Prima di tutto i trasporti. Acquisito il principio della continuità  territoriale, acquisiti i programmi ordinari di ammodernamento delle strutture portuali e aeroportuali attraverso le possibilità  della legge 64 e l’opportunità di inserire la Sardegna nelle grandi reti di comunicazione, perché non chiedere subito su questo settore un progetto, datato, dei trasporti interni che sia risolutivo, collegando attraverso una viabilità  stradale e ferroviaria i porti della Sardegna?

E ancora una seconda richiesta, un secondo fattore: una grande area, un parco scientifico, un’area di ricerca di livello nazionale e internazionale. E’ stata richiamata l’esperienza calabrese dei 900 miliardi. Ebbene in Sardegna questo può essere chiesto in legge, non rinviandolo ad una generica trattativa perché la Sardegna venga coinvolta nell’innovazione tecnologica, ma un definito parco che esalti la cultura dell’innovazione e la renda fruibile immediatamente nella nostra Isola.

Terzo: un programma sperimentale di ammodernamento della pubblica amministrazione in Sardegna, facendo seguito in modo esplicito, rigoroso alle conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta che questo già da allora prevedeva come impegno. Infine una quarta richiesta, un quarto fattore: un sistema di esenzioni doganali e fiscali orientate selettivamente alla produzione, capaci di incidere direttamente e consistentemente nella dinamica dell’impresa eliminando di fatto il differenziale di produttività .

Eppure noi ci rendiamo conto che queste cose meritano un maggiore approfondimento, una maggiore discussione e su taluni aspetti occorre un’informazione maggiore.

La qualità  dei rapporti politici, dei rapporti complessivi, la qualità generale dei rapporti all’interno del Consiglio regionale, al di là  dei ruoli d maggioranza e di opposizione, può rendere più agevole confronto sui grandi temi e favorire gli accordi, rendere tutti partecipi del ruolo ù alto di rappresentanza del popolo sardo che tutti noi abbiamo.
Con questo spirito vogliamo ancora discutere sul futuro della Sardegna, della dimensione moderna della nostra autonomia, dei progetti che noi abbiamo, pensando in grande, per quello che ancora ci è rimasto di capacità  di sollevarci dalle nostre passioni del quotidiano, dei ruoli che abbiamo in Consiglio.

Leggo sui giornali che esisterebbe tensione in questo momento politico: fosse vero! Nascesse questa tensione dal confronto delle nostre idee, dalle nostre ambizioni di meglio interpretare i bisogni della Sardegna, di essere più vicini ai grandi temi del nostro Paese, ai movimenti più vivi della cultura politica nazionale. Se questa fosse la tensione di cui si parla non sarebbe affatto di segno negativo. E tuttavia fuori dal Consiglio regionale l’attenzione è poca, la fiducia dei sardi si va mortificando, si va restringendo quello iato che separa la frontiera della protesta e del ribellismo.

A questo vanno le nostre attenzioni, qui risiede la vera sfida di questa legislatura e noi, questa legislatura, ci siamo impegnati a non sprecarla.

 

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