Presso le Commissioni riunite I Affari costituzionali e II Giustizia della Camera dei Deputati
(10 ottobre 2018)
1. Profili generali
Ringrazio le Commissioni per l’opportunità di questo confronto, che verterà solo sul secondo Capo del disegno di legge, in quanto oggetto di più specifica competenza del Garante.
Il testo disciplina un tema tanto complesso quanto di primaria rilevanza per la democrazia, quale quello della trasparenza del finanziamento delle formazioni politiche e della loro attività.
Trasparenza necessaria per la correttezza della competizione politica e per lo stesso consapevole esercizio del diritto di voto e della libertà di associazione politica da parte dei cittadini, i quali hanno il diritto di conoscere eventuali cointeressenze tra i partiti e i soggetti più vari che ne sostengano l’azione.
Questa consapevolezza è, peraltro, naturale implicazione del carattere necessariamente democratico dell’associazionismo politico tutelato dall’art. 49 della Costituzione, proprio in quanto, mediante i partiti, i cittadini possano concorrere “a determinare la politica nazionale”, con metodo, appunto, democratico.
E democrazia è anzitutto, come noto, governo del potere visibile.
L’opacità nel finanziamento dei partiti ha rappresentato, del resto, uno dei principali fattori della loro delegittimazione e, quindi, della crisi di fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative e nei meccanismi democratici, dei quali appunto l’associazionismo politico è necessario presupposto.
Norme volte a promuovere il necessario grado di trasparenza della vita interna dei partiti e, in particolare, delle loro fonti di finanziamento, sono dunque indubbiamente opportune. Tuttavia, tale disciplina deve coniugare, nella maniera più equa possibile, tale esigenza con il rispetto del diritto alla protezione dei dati personali, sancito come fondamentale dal diritto europeo di rango primario e articolato in un quadro giuridico (Regolamento generale sulla protezione dei dati (UE) 2016/679 e direttiva (UE) 2016/680 su polizia e giustizia penale) che, per la stessa natura della fonte, vincola in molte parti la stessa discrezionalità legislativa interna.
Va dunque tracciato il limite, oltre il quale la pubblicità delle sovvenzioni erogate alle formazioni politiche leda lo stesso nucleo essenziale del diritto fondamentale alla protezione dei dati, incomprimibile per espressa previsione generale della Carta di Nizza (art. 52).
Il diritto alla protezione dei dati personali è, del resto, esso stesso necessario presupposto di democrazia in quanto consente la libera espressione della personalità anche nelle formazioni sociali ove essa si svolga, per citare l’art. 2 Cost a cui, tradizionalmente, si sono ricondotti la dignità e il diritto alla riservatezza, alla prima funzionale.
A venire in rilievo nella materia in esame è, peraltro, un dato personale assistito da particolare tutela. L’informazione sui contributi forniti a un determinato partito politico o movimento (o, vedremo, più avanti, anche a fondazioni a carattere politico) può esprimere infatti, in certa misura, l’orientamento politico dell’interessato, la sua affinità a determinate formazioni politiche.
Pertanto, il dato relativo al contributo erogato a partiti e movimenti è stato considerato, anche, in passato, dato sensibile e come tale meritevole della tutela rafforzata accordata, a tale categoria di dati, dalla disciplina vigente da oltre vent’anni: direttiva 95/46, l. 675/96, d.lgs. 196/2003 (infra: Codice) e appunto, ora, Regolamento generale sulla protezione dei dati (UE) 2016/679 (infra: Reg. 679).
La ratio di tale tutela rafforzata va individuata, del resto, nell’esigenza di consentire il libero esercizio delle libertà democratiche, al riparo dal rischio di discriminazioni o stigmatizzazioni motivate, appunto, da avversione politica, ideologica, ,ecc., suscettibile di essere alimentata dall’indiscriminata pubblicità di informazioni sulle convinzioni del singolo cittadino.
Non a caso, la direttiva 95/46 e il Codice prima, nonché il Regolamento (art. 9, par.2, lett.d) adesso, hanno sempre ammesso la circolazione endoassociativa di tali dati sensibili, anche prescindendo dal consenso dell’interessato, con il solo limite, appunto, della diffusione o comunicazione all’esterno, proprio ad evitare i rischi di discriminazione insiti nell’indiscriminata pubblicità dei dati in esame.
Naturalmente ciò non vuol dire che la disciplina di protezione dati osti in linea generale alla pubblicità delle informazioni sul finanziamento dei partiti.
Tuttavia, proprio in ragione della particolare natura di tali dati personali, la relativa disciplina deve poter tracciare l’equilibrio, al punto più alto, tra esigenze di trasparenza della gestione (anche) finanziaria dei partiti e diritto alla protezione dei dati del donante. Il quale – è bene ribadirlo – è protetto, nella misura che si intenda stabilire, solo se persona fisica, dal momento che le persone giuridiche non rappresentano soggetti di diritto, in senso proprio, ai fini della disciplina di protezione dati.
In questa prospettiva, va dunque protetta la riservatezza del militante che potrebbe – per il timore di ritorsioni o discriminazioni, magari anche in ambito lavorativo, derivanti dall’indiscriminata pubblicità del dato sulla sovvenzione erogata- essere indotto a rinunciare a tale forma di contribuzione.
Naturalmente, va stabilita la soglia idonea a distinguere la modica donazione del militante volta a contribuire alla vita della formazione politica cui sente di appartenere, dal finanziamento sistematico, o comunque rilevante, dei partiti, che merita invece pubblicità per garantire trasparenza su rapporti lato sensu “debitori” e sulle cointeressenze suscettibili di influenzare la stessa linea politica seguita.
Fermo restando che, in ogni caso, ove si tratti di accertare eventuali illeciti nell’erogazione dei contributi, ad esempio in forma di riciclaggio di proventi di reato, l’autorità giudiziaria non incontrerà certo i limiti imposti dalla disciplina della trasparenza.
Anche nel contesto investigativo, peraltro, le garanzie di protezione dati sono assicurate dal vincolo – imposto anche agli organi inquirenti – del rispetto delle norme della direttiva 2016/680 (recepita da noi con il d.lgs. n. 51 del 2018), che con innovazione significativa ha disciplinato, sotto il profilo privacy, non solo la cooperazione di polizia e giudiziaria (come la previgente decisione quadro), ma anche lo stesso ambito investigativo interno.
2. La disciplina proposta
Esaminando dunque, in prospettiva, le norme del disegno di legge, possiamo formulare in estrema sintesi queste indicazioni.
La prevista divulgazione, sul sito internet – del partito beneficiario, oltre che in alcuni casi del Parlamento – dell’identità dell’autore di sovvenzioni superiori alla soglia di 500 euro, oltre che dell’entità del contributo, integra un trattamento (nella più invasiva forma della diffusione telematica) di dati appartenenti alle categorie particolari di cui all’art. 9 Reg. 679. Sotto il profilo della base giuridica, esso è riconducibile alla categoria di cui all’art. 9, par. 2, lett.g), ovvero alla necessità del trattamento per motivi di interesse pubblico rilevante, in base ad espressa previsione contenuta, anche, in norma (legislativa o regolamentare) nazionale (in tal senso andrebbe espunto, perché ultroneo e fuorviante, il riferimento all’irrilevanza del consenso).
Tale previsione normativa – precisa l’art. 9, par. 2, lett.g) – deve essere proporzionata al fine perseguito (il canone di proporzionalità è, cioè, riferito allo stesso presupposto normativo), deve rispettare l’essenza del diritto e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti dell’interessato (cfr., in tal senso, anche art. 2-sexies del Codice e in particolare il comma 2, lett.f).
Se la rilevanza (richiesta ai sensi del citato art. 2-sexies) dell’interesse pubblico perseguito – ovvero la trasparenza dei finanziamenti dei partiti, in vista del controllo democratico da garantirsi- è in questo caso indubbia, sotto il profilo della proporzionalità rispetto al fine perseguito, la norma potrebbe essere perfezionata.
Una delle soluzioni possibili potrebbe essere quella di modulare diversamente le modalità di assolvimento di tale obbligo di pubblicazione. In tal senso si potrebbe indicare espressamente un termine per la pubblicazione su internet di durata ridotta, a fronte di una conservazione assai più protratta del registro tenuto dal partito, recante le annotazioni delle donazioni con le medesime informazioni.
Ancora sotto il profilo della proporzionalità, in ordine all’individuazione della soglia oltre la quale scatta l’obbligo di pubblicazione: essa implica una valutazione discrezionale del legislatore, che deve appunto verificare entro quali limiti vada protetta la riservatezza del sovventore. A tal fine può essere utile considerare, ad esempio, che il regolamento Ue, 2014/1141 (come modificato dal reg. 2018/673), in ordine alla trasparenza del finanziamento dei partiti europei, delinea in questo senso una gradazione degli obblighi di pubblicità proporzionale all’entità del contributo.
In particolare, la norma qualifica come donazioni di piccola entità (e come tali sottratte all’obbligo di pubblicazione) quelle di entità inferiore a 1.500 euro. Per i contributi superiori a tale entità ma inferiori a 3.000 euro la pubblicazione telematica (su un portale dedicato del Parlamento europeo) è invece soggetta all’obbligo del consenso, mentre un obbligo di pubblicazione in senso stretto, a prescindere dal consenso dell’interessato, è stabilito solo per le sovvenzioni superiori ai 3.000 euro.
Il richiamato regolamento prevede poi specifichi obblighi in tema di conservazione dei dati (possibile per massimo due anni dall’inizio della pubblicazione), divieto di utilizzo per altre finalità, adozione di misure tecniche e organizzative idonee a prevenire ogni forma di trattamento illegittimo, risarcimento del danno da illegittimo trattamento.
In ordine alla previsione di misure appropriate e specifiche a tutela dell’interessato, andrebbe dunque previsto, anche nel disegno di legge, un termine di pubblicazione obbligatoria strettamente commisurato e non eccedente le finalità perseguite, nonché modalità di assolvimento dell’obbligo di pubblicità in forma non indicizzabile e protetta dal rischio di alterazione, copia ecc..
Tali garanzie potrebbero anche essere previste da un regolamento attuativo da emanarsi su parere del Garante.
La prevista estensione a fondazioni, associazioni o comitati a carattere politico degli obblighi di trasparenza e rendicontazione previsti per i partiti, si può ritenere ragionevole, nella misura in cui assoggetta al medesimo regime di trasparenza previsto per i partiti enti, quali appunto le fondazioni a carattere politico, che spesso ne supportano attivamente le iniziative. In tal senso depone anche il citato Regolamento europeo, che estende gli obblighi di pubblicità previsti per i partiti alle fondazioni “politiche”, oggetto tuttavia di specifica registrazione presso l’Autorità per i partiti e le fondazioni politiche europee.
Se, dunque, tale ampliamento degli obblighi di pubblicità pare giustificabile in ragione dell’identità del fine perseguito, va tuttavia circoscritto adeguatamente l’ambito di operatività della norma, selezionando – all’interno del variegato ambito associativo – gli enti che effettivamente svolgano un ruolo attivo di supporto a partiti e movimenti.
Il modello europeo è, in questo senso, significativo, nella misura in cui assicura, attraverso la registrazione, la necessaria certezza del diritto in relazione agli obblighi di trasparenza da osservare, minimizzando il rischio di un’interpretazione eccessivamente ampia della norma, che finirebbe con l’assoggettare ai previsti obblighi di pubblicità anche fondazioni prive di effettiva natura politica.
Pertanto, anche al fine di garantire il necessario rispetto del principio di proporzionalità, è opportuno meglio definire gli indici di collegamento con la politica che, secondo la norma, consentono di ascrivere natura politica a fondazioni, associazioni, comitati (e dunque estendere loro gli obblighi di trasparenza).
In tal senso, in particolare si dovrebbe precisare il carattere tassativo o meramente esemplificativo di alcuni dei criteri, descritti con formule ampie, o comunque definire più puntualmente taluni parametri, quali ad esempio quello dell’appartenenza ad un partito dei titolari di incarichi istituzionali presso l’ente.
La previsione della diffusione obbligatoria, sul sito del partito, del certificato penale dei candidati in competizioni elettorali ad eccezione di quelle per comuni con meno di 15.000 abitanti, integra invece un trattamento di dati “relativi a condanne penali e reati” (art. 10 Reg. 679; 2-octies Codice) che, come già i dati giudiziari nella disciplina previgente, godono di una tutela rafforzata in ragione della natura particolarmente stigmatizzante dell’informazione che rivelano.
Requisito necessario per la legittimità di simili trattamenti è non soltanto la previsione in base a norma legislativa o regolamentare (anche) interna (presupposto nella specie sussistente), ma anche il rispetto del canone di proporzionalità e la previsione di garanzie appropriate imposte, appunto, per tali categorie di dati dall’art. 10 Reg. 679.
Sotto il primo profilo (proporzionalità), è anzitutto opportuno un raccordo tra tale previsione e la disciplina dell’incandidabilità per la specifica competizione elettorale in questione. Dal momento che la condanna definitiva per diversi reati (distrettuali, contro la p.a., non colposi con condanna superiore a due anni) è causa ostativa alla stessa candidatura, è evidente che i certificati penali dei candidati ammessi non potranno che riportare , quali eventuali iscrizioni, solo condanne (definitive) per reati ritenuti dal legislatore non ostativi alla candidatura.
Tale circostanza determina il paradossale effetto per il quale si impone ai partiti la costituzione di una sorta di “casellario giudiziale telematico”, inerente tuttavia reati ritenuti dal legislatore irrilevanti ai fini dell’incandidabilità. La ratio di tale previsione consisterebbe allora nel fornire al cittadino un quadro più completo sulla condotta del candidato, la cui proporzionalità va tuttavia attentamente valutata. Tale previsione imporrebbe, infatti, una rilevante limitazione della riservatezza per esigenze di pubblicità rispetto a illeciti ritenuti non tali da integrare una specifica ipotesi di “indegnità morale” del candidato.
Qualora, invece, l’obbligo di pubblicazione del certificato penale si intenda riferito ai candidati proposti e non soltanto a coloro i quali risultino già ufficialmente ammessi alla candidatura dall’ufficio elettorale, si tratterebbe di un’ipotesi eccessivamente ampia e, come tale, di dubbia proporzionalità. Ai fini del consapevole esercizio del diritto di voto rilevano, infatti, i requisiti di “moralità” dei soli candidati effettivamente ammessi alla competizione elettorale.
E in ogni caso, potrebbe valutarsi una modulazione dell’ampiezza di tale pubblicazione in ragione delle diverse caratteristiche della disciplina sull’incandidabilità per ciascun tipo di elezione.
Sotto il secondo profilo (garanzie appropriate per i diritti e le libertà), occorre valutare se il tipo di pubblicazione ipotizzato (divulgazione sul sito web di partiti e movimenti) sia in quanto tale compatibile con tali garanzie, in ragione del rischio di riproduzione, alterazione, indiscriminata circolazione che necessariamente porta con sé la diffusione in rete.
Si dovrebbe allora prevedere un accesso selettivo (con credenziali rilasciate a chiunque ne abbia interesse e dietro specifica richiesta) a tali dati, resi disponibili in formato protetto dal rischio di copia o alterazione, per un tempo proporzionato alle esigenze perseguite (ad esempio quella della campagna elettorale).
Tali garanzie potrebbero anche essere previste da un regolamento attuativo (cfr. art. 2-octies), da emanarsi su parere del Garante.
In ogni caso, la stessa norma di legge dovrebbe essere integrata con riferimento alla fase della raccolta, da parte del partito, del certificato penale fornitogli dal candidato.