(“Il Fatto Quotidiano”, 1° ottobre 2019)
È del tutto infondata l’affermazione del Prof. Alessandro Santoro, riportata ieri da Il Fatto Quotidiano.it, secondo cui il Garante si sarebbe “opposto alla profilazione individuale del rischio fiscale tramite l’utilizzo massivo dei dati dell’Anagrafe dei rapporti finanziari”.
La lotta all’evasione fiscale è un obiettivo essenziale per il nostro Paese, anche per garantire quell’equità fiscale “promessa” dalla Costituzione. Per questo, il Garante ha sempre supportato le misure volte a rafforzare l’efficacia dell’azione di contrasto dell’evasione fiscale, pur tutelando il diritto dei cittadini al corretto trattamento dei loro dati. In ciascuno dei vari provvedimenti resi dall’Autorità in questa materia è evidente la ricerca del miglior equilibrio tra l’efficacia delle verifiche fiscali e il diritto alla protezione dei dati personali.
Mai il Garante ha espresso un veto sulle strategie di contrasto fiscale adottate dall’amministrazione. Ci si è invece limitati a valutare la compatibilità delle misure proposte con le garanzie di protezione dei dati – anche per evitare il rischio di accessi abusivi e attacchi informatici al prezioso patrimonio informativo dell’Agenzia delle entrate – e garantire l’esattezza dei dati (e quindi l’affidabilità dei criteri di calcolo) sui quali si basano gli accertamenti, così migliorandone l’efficacia. E’ bene chiarire che il Garante non ha mai impedito la profilazione sulla base del rischio fiscale, prevista peraltro dall’art. 11, comma 4, dl 201/2011, né in generale ostacolato la raccolta di dati utili agli accertamenti. Il 15 novembre 2012, in primo luogo, è stato reso parere favorevole sul provvedimento dell’Agenzia relativo alla comunicazione integrativa annuale all’archivio dei rapporti finanziari, prescrivendosi le sole misure indispensabili ad evitare il rischio di accessi abusivi.
Riguardo al redditometro, il 21 novembre 2013 l’Autorità ha soltanto prescritto all’Agenzia di ricostruire il reddito del contribuente, ai fini degli accertamenti fiscali, utilizzando spese certe e non i dati delle spese medie Istat. E questo, non soltanto ai fini della garanzia del diritto del contribuente a non essere profilato sulla base di dati erronei, che gli attribuiscano dunque un’“identità fiscale” non veritiera. Le misure prescritte dal Garante hanno contribuito a rendere più affidabili gli indici sulla base dei quali formare i profili di rischio fiscale, migliorando in tal modo l’efficacia dell’azione di contrasto dell’evasione.
Parimenti infondata è l’affermazione secondo cui “l’authority ha imposto che l’incrocio dei dati “a monte” venisse fatto solo a titolo sperimentale, su poche centinaia di posizioni”. Come può leggersi, in particolare, nel provvedimento del 20 luglio 2017, il carattere sperimentale della verifica fiscale è stato il frutto di un’autonoma decisione dell’Agenzia delle entrate, che con nota del 7 settembre 2016, “ha sottoposto all’attenzione del Garante l´intenzione di sperimentare una procedura di selezione dei contribuenti” per verificare “in relazione ad un ristretto campione (…), l’efficacia di un nuovo modello di analisi dei dati, finalizzato a individuare incongruenze tra le somme a disposizione del contribuente, rilevate dalle informazioni contenute nell’Archivio dei rapporti finanziari e i redditi e le spese desumibili dalle informazioni contenute nell’Anagrafe tributaria”. E peraltro, nel caso di specie, il Garante ha ritenuto idonee le misure previste dall’Agenzia in relazione a questo tipo di verifica fiscale.
Analogamente favorevole è stato il riscontro reso con il provvedimento del marzo 2019, pur con l’indicazione di alcuni accorgimenti utili a garantire l’effettiva correttezza del trattamento dei dati dei contribuenti, oltre alla congruità delle verifiche fiscali.
Tutt’altro che di ostacolo, dunque, l’azione del Garante si è rivelata semmai funzionale alla migliore efficacia degli accertamenti fiscali, nel rispetto peraltro del diritto dei cittadini a non essere erroneamente profilati come soggetti a rischio fiscale. L’abitudine di rappresentare la protezione dati come inutile ostacolo al libero dispiegamento dell’azione amministrativa (o delle indagini giudiziarie o della lotta all’evasione fiscale) è una costante del dibattito pubblico. Ed è segno di un pericoloso impoverimento della cultura democratica. Ma è ancor più grave se questo approccio disinformativo viene adottato dagli “esperti”, dai quali ci si attende invece attenzione e correttezza.