(“Il Messaggero” e “Il Mattino”, 26 novembre 2019)
La decisione di Facebook benché poi revocata- di rendere inaccessibile la pagina del movimento “delle Sardine” ripropone, con l’urgenza delle grandi questioni, il tema della “democraticità della rete”. Benché non sia chiaro sulla base di quali ragioni sia stato disposto l’oscuramento di questo profilo e se le segnalazioni ricevute fossero imputabili a invii robotizzati diretti da una regia con intenti precisi, certo è che la vicenda – come già altre in passato – tocca un punto nevralgico. E cioè: quella che asetticamente viene definita policy aziendale dei social – su cui si fonda, appunto, la rimozione di contenuti ritenuti “illeciti” – ha un impatto rilevantissimo sui diritti fondamentali e, come tale, costituisce esercizio di un vero e proprio potere, ancorché “privato”.
Il ruolo sociale delle piattaforme è tale che, oggi, ogni limitazione nel loro uso comprime più o meno incisivamente la libertà di espressione: vera e propria “pietra angolare” della democrazia. Non solo: la centralità, progressivamente assunta dalla rete e dagli stessi social, nel “fare informazione”, finisce con il caricare le piattaforme di un ruolo (e di un potere) informativo cui, tuttavia, non corrisponde uno statuto giuridico adeguato in termini di responsabilità.
Non è un caso, allora, che la giurisprudenza, europea e interna, stia tentando di rafforzare la responsabilità dei gestori per i contenuti illeciti di cui consentono la divulgazione. Ed è significativo che, dopo la vicenda Cambridge Analytica – che ha rivelato il potere manipolativo proprio del “microtargeting” – la disciplina europea sanzioni l’uso illecito di dati personali per condizionare i risultati elettorali.
Si tratta dei primi tasselli di un mosaico, che le istituzioni europee e nazionali tentano di realizzare per affermare la “sovranità digitale” come riconquista, da parte degli organi democratici, di una governance socialmente e giuridicamente sostenibile del mondo – altrimenti anomico più che anarchico – della rete. E questo, senza prescindere da una responsabilizzazione delle piattaforme che assuma come parametro non il profitto, ma la garanzia delle libertà e dell’eguaglianza.
Significativo, ad esempio, che Twitter abbia valutato di non rimuovere i tweet politici che pur violino le sue regole, ma di limitare le interazioni con essi, contenendone quindi, anche la “viralità”. Si tratterebbe, certo, di una misura non risolutiva del problema dell’incidenza delle decisioni “private” dei gestori sui diritti di libertà, ma indubbiamente riduttiva dell’impatto “censorio” che alcune policies aziendali, pur in ipotesi sostenute dai fini migliori, possono comunque avere.
Distinguere libertà di espressione da amplificazione algoritmica, può allora contribuire a fornire all’utente maggiori strumenti per orientarsi in maniera consapevole in quella che rischia, altrimenti, di essere mera entropia (e non ricchezza) informativa. In questo senso, andrebbe percorsa la strada – già in parte intrapresa in via sperimentale da alcuni gestori – di soluzioni tecniche volte a segnalare all’utente, in base a criteri oggettivi (ad esempio la massività degli invii o il numero di condivisioni) contenuti potenzialmente inaffidabili, stimolando anche, così, il senso critico del pubblico.
Utilizzare la tecnica in funzione di promozione, anziché di limitazione, dei diritti può essere, in questo senso, una delle soluzioni migliori per contribuire a rendere la rete quello straordinario strumento democratico che doveva e deve essere.