di Marcello Fois, La Nuova Sardegna, 18 maggio 2020
Antonio Giuseppe Soro, detto Antonello, probabilmente per l’eccesso di omonimi nella sua famiglia,
è un politico di lungo corso con l’orgoglio di chi questo curriculum può esibirlo senza alcuna vergogna. E’ di quel genere di politici che riconciliano con quella categoria oggi tanto vituperata. Ha militato nel territorio dei moderati progressisti da sempre qualunque nome si siano dati per definirsi nel tempo: sinistra DC, PPI, DL, PD. E’ stato Sindaco di Nuoro e deputato dal 1994 al 2012.
Oggi è, per il nostro Paese, il garante per la Privacy, o come sarebbe meglio dire Garante per la protezione dei dati personali. Un compito complesso che lui ha declinato rappresentando in prima persona un esempio di sobrietà e riservatezza.
Lei è il Garante per la Privacy nel nostro Stato, perciò parto, come si dice in gergo calcistico, a gamba tesa riferendomi alla App Immuni: i tempi di pandemia che stiamo subendo globalmente possono giustificare, secondo il suo parere qualificato, un allentamento, anche lieve, del nostro diritto alla Privacy?
Al di là dell’App Immuni, oggi si gioca una sfida cruciale per lo Stato di diritto: governare la pandemia con metodi che restino effettivamente dentro il perimetro della Costituzione. L’emergenza contempla molte deroghe purché non irreversibili e ispirate al principio di proporzionalità. Non dev’essere, in altri termini, un punto di non ritorno ma un momento in cui modulare prudentemente il rapporto tra norma ed eccezione, tutela individuale e solidarietà sociale. Il contesto emergenziale non deve, soprattutto, indurre un’assuefazione acritica al diritto della paura né una rassegnata indifferenza alla progressiva perdita di libertà. La protezione dei dati è, in questo senso, un cursore importante della sostenibilità, sotto il profilo democratico, della gestione dell’emergenza e fonte di regolazione della dimensione digitale su cui si stanno sempre più proiettando le nostre esistenze. In quanto diritto di libertà, trasversale a ogni ambito della vita, sempre in equilibrio con gli altri diritti in gioco, racconta molto del rapporto, appunto, tra la vita e le regole. E in un contesto emergenziale, ogni sua limitazione-dalla giustificazione degli spostamenti al contact tracing- incide in maniera significativa sul rapporto libertà-autorità, da cui si misura la tenuta della democrazia. Garantire che le misure restrittive di questo diritto siano proporzionate e non eccedenti quanto indispensabile per il contrasto della pandemia vuol dire, dunque, difendere la democrazia.
Ma un garante della Privacy in questo universo telematico ha un compito normativo, di controllo, di rappresentanza, consolatorio? Quali sono i territori dentro i quali deve sapersi muovere chi ricopre un incarico delicato come il suo?
I territori in cui si avventura il Garante sono sconfinati e, spesso, inesplorati. Il diritto affidato alla tutela dell’Autorità riguarda la dignità della persona, pilastro su cui fonda la nostra Costituzione. La nostra attività spazia dalla difesa della propria immagine lesa sui media all’autodeterminazione del lavoratore rispetto alle ingerenze datoriali, dalla riservatezza delle proprie condizioni sanitarie o delle proprie opinioni politiche o religiose all’”immunità” rispetto a intercettazioni illegittime, fino alla libertà da forme di profilazione così invasive da condizionare non più soltanto le nostre abitudini di consumo ma persino le nostre scelte politiche e la formazione del consenso elettorale. E’ diritto alla libera costruzione della propria personalità in ogni contesto in cui essa si esplica. E nella nuova organizzazione della vita che, sempre più, si sposta nella dimensione digitale – di cui il dato costituisce l’elemento fondativo – questa disciplina assume un ruolo sempre più importante e comporta, spesso, l’ingresso in “terra incognita”. Mai come rispetto a questo straordinario diritto di libertà è, dunque, necessario uno sguardo presbite, che sappia cogliere le sfide di domani senza trascurare l’urgenza dell’oggi.
L’hanno scelta perché è barbaricino, orgolese, quindi proverbialmente riservato? A parte gli scherzi lei è quello che si potrebbe definire un politico della vecchia scuola. Di quella generazione di politici che si sono formati nella politica. Partiamo da lì: la politica è un accidente, una maledizione, una vocazione?
La politica, come diceva Paolo VI, può essere la forma più alta di carità. E’ passione, ascolto, studio, visione, socialità, competizione. Esperienza che segna la vita come nessun’ altra, forse anche perché è tanto più autentica quanto più si confronta con il dolore, rendendolo ragione di cambiamento. Certo, in molti – anche nella storia recente – hanno tradito la missione del loro mandato, generando reazioni di sfiducia e rigetto. E tuttavia, lo sconcerto e insieme il desiderio di non omologarsi nel giudizio della gente a quella categoria di “politici degradati” spinge più frequentemente ad accodarsi al coro di denuncia piuttosto che all’umile contributo per rintracciare quel filo sottile che ancora può legare i cittadini alle istituzioni in un nesso di fiducia. Molti alfieri dell’antipolitica hanno poi scoperto con stupore quanto sia diversa la prospettiva. Il vero cambiamento non si risolve attraverso le scorciatoie della propaganda. L’itinerario è più complesso: si tratta di ritrovare e di rendere autentico il nesso tra consenso, legittimazione e potere, ricercare un rapporto di fiducia e lealtà tra società, persona e istituzioni; saldare gli interessi e la consapevolezza dei diritti con la rappresentanza, per restituire dignità ai contenuti della politica come ricerca del bene comune rispetto alle esigenze dello spettacolo.
Che cosa ricorda della sua formazione “locale”? E’ stato un benefit per la sua evoluzione o anche lei ha attraversato quella fase del distanziamento che molti isolani raccontano?
Ho avuto la fortuna di incontrare, al liceo, insegnanti molto bravi: penso a Lucia Pinna, finissima intellettuale socialista, che ha saputo stimolare in noi la cultura dei diritti e mi ha fatto scoprire Ignazio Silone. Da quelle pagine imparai a indignarmi davanti all’egoismo e alle ingiustizie e pensare la politica come estensione etica e valoriale dalla sfera individuale a quella sociale. E penso a padre Paolo Monni, che mi fece conoscere Jaques Maritain e il suo umanesimo integrale. E poi partecipai alla stagione dei giamburrasca di Ariuccio Carta. Una scuola straordinaria di buona politica.
Lei è un politico che non ha mai rinnegato la sua formazione di moderato, ma esiste realmente un Paese moderato? A vedere gli esiti delle ultime tornate elettorali parrebbe che l’indicatore medio rappresenti un Paese spesso radicalizzato tutt’altro che tendente alla tolleranza…
Moderazione significa equilibrio, sobrietà, senso del limite. Per me sono ancora valori positivi. Ma so di vivere in quella che viene definita l’età della rabbia. E’ il tempo della rete, della connessione perenne, capace di mettere in contatto persone dal lato opposto del pianeta in ogni momento ma, paradossalmente, anche di ridurre il dialogo e il confronto su cui fondano i legami sociali autentici. Così rischia di perdersi anche l’attitudine alla tolleranza delle idee diverse e la collettività si riduce a una somma di solitudini, autoreferenziali. La connessione perenne si risolve, a volte, nel mero accostamento di individualismi, vanificando il senso della relazione e, in ultima analisi, dell’essere comunità. Le nuove tecnologie hanno eliminato la distinzione tra produttori e destinatari dell’informazione, amplificando frequentemente la diffusione di notizie false e il linguaggio spesso aggressivo dei social network.
In questo sfondo, nella società delle piattaforme, è maturata la crisi di legittimazione della politica, il declino dei corpi intermedi, l’avanzare incontrastato di poteri privati sempre più forti. Ma qualunquismo e antipolitica non allargano il diritto di cittadinanza, non sono una categoria virtuosa del sistema democratico.
Al contrario, la storia ci suggerisce che spesso costituiscono un formidabile alimento per movimenti apripista di svolte autoritarie e illiberali. Il culto della personalità, la deriva plebiscitaria sono la negazione della democrazia. E su questa base crescono i populismi che alimentano rancore e di rancore si alimentano in ogni latitudine, anche in Italia.
Quella cattività forzata le ha fatto inquadrare meglio certe questioni che, anche solo per mancanza di tempo non aveva considerato abbastanza? Che cosa si terrà di questa quarantena?
Ho sperimentato la fatica dello smart working. Penso che in futuro diventerà una forma diffusa, effettivamente alternativa, di organizzazione del lavoro.
La tecnologia può favorire una nuova articolazione dei processi produttivi in grado di accrescere efficienza e flessibilità. Ma andranno seriamente affrontati e risolti tutti i problemi emersi in queste settimane: dalle dotazioni strumentali alla garanzia di connettività, alla regolazione degli orari effettivi, al riconoscimento del diritto alla disconnessione, ai problemi connessi con la presenza dei figli minori, alla protezione dei dati. E per fare questo sarà indispensabile una solida cornice normativa che assicuri garanzie e tutele. Ed è necessario un vero cambiamento culturale che presieda alla nuova organizzazione in grado di pianificare le possibilità offerte dalle tecnologie, di adottare un’ottica di valutazione riferita al risultato, di stimolare la responsabilità. È stato un periodo straordinario per tutti. Io in questi mesi ho lavorato moltissimo e non ho trovato il tempo di leggere l’ultimo romanzo di Marcello Fois. E poi ho scoperto che vivere tutto il giorno a casa, da solo con mia moglie, dopo 47 anni, è ancora bello.
Qualcuno ha scritto che i sardi diventano più sardi quando possono guardarsi da fuori. Lei cosa vede di sé da questo punto di vista?
Come ha scritto Elvira Serra, la brava giornalista nuorese del Corsera, i sardi «sono» sardi, non saranno mai «di origine sarda». Non mi sono mai sentito “fuori”. Nell’isola è la mia casa, non ho mai interrotto il legame con la Sardegna: non solo le radici ma anche i miei amici più veri sono lì.
Le piace la Sardegna attuale? È ancora accettabile quel principio che il grande Lilliu chiamava “costante resistenziale dei sardi” o è solo una formula autoassolutoria che non ha riscontri nella nostra storia attuale?
Ho avuto il privilegio dell’amicizia di Giovanni Lilliu. Le sue analisi e la sua visione hanno alimentato più di una generazione di classe dirigente sarda. Penso che in linea generale la “costante” viva ancora, anche se i processi di omologazione generati dalla prima fase della rivoluzione digitale, soprattutto nei più giovani, hanno sicuramente attenuato alcuni tratti identitari della nostra comunità.
Qual è la formula per attuare quel progetto non scritto di Sergio Atzeni secondo il quale si può essere contemporaneamente sardi, italiani ed europei?
Chi ha introiettato – come i sardi – la cultura autonomistica e ha sposato la Costituzione repubblicana non ha avuto difficoltà a coltivare l’idea dell’Europa dei popoli. Ma questa scelta va rinnovata con decisione, nella consapevolezza che l’economia digitale ha modificato profondamente la geografia dei poteri nel mondo. Senza l’Europa le nostre piccole patrie sono destinate ad un destino di insopportabile subalternità. Altro che sovranismi!
Lei è laureato in Medicina e Chirurgia, qual è la vera malattia attuale del nostro Paese dottore?
Siamo partecipi di problemi che vanno ben al di là dei nostri confini. La pandemia ci ha messi di fronte alla nostra vulnerabilità, costringendoci in maniera tanto radicale quanto improvvisa a una vera e propria rivoluzione in abitudini, comportamenti, convinzioni e persino auto-percezioni.
Questa esperienza è servita, in un certo senso, a ricordarci come persino il progresso più avanzato, l’innovazione più avveniristica abbiano un fondamento umano, con cui dobbiamo fare i conti. Ed è bene che da questa consapevolezza muova un approccio diverso al rapporto tra uomo e tecnica, che sappia fare tesoro di tutto ciò che abbiamo vissuto, nel bene e nel male, in questi mesi. Ora, alla vigilia di una stagione difficilissima per la nostra economia, serve un salto di qualità da parte della politica, capace di sciogliere i nodi di un Paese bloccato e di cui non sono valorizzate tutte le grandi potenzialità. Sono in campo spinte e suggestioni piene di contraddizioni. Tra il bisogno di corrispondere alla domanda di semplificazione, di ricomposizione e il desiderio di riaffermare continuamente i caratteri delle identità, tra la volontà di corrispondere alla domanda di efficienza della guida politica e la domanda insoddisfatta e insieme esigente di partecipazione alle decisioni, tra le aperture alla ricchezza di talenti e di fermenti presenti nella società civile e la consapevolezza che la politica ha bisogno di professionalità non occasionali. E ancora tra il desiderio di assecondare gli umori, i bisogni spesso proposti con approccio radicale dai movimenti, dal popolo – come si dice – e la cultura di governo che impone il dovere etico della responsabilità.
Bisognerebbe sviluppare, sempre di più, una cultura della responsabilità che riguarda tutti: dalle formazioni politiche, di maggioranza e di opposizione, ai singoli cittadini, alle imprese, alle formazioni intermedie, alle associazioni raccolte intorno a interessi e a valori. La cultura della responsabilità costituisce il più forte presidio di libertà e di difesa dei principi su cui si fonda la Repubblica. Questo comune sentire della società – quando si esprime – si riflette sulle istituzioni per infondervi costantemente un autentico spirito repubblicano. Ne avremo un gran bisogno nei prossimi mesi, soprattutto se sapremo far tesoro di ciò che la pandemia ha reso ancor più evidente: nessuno si salva da solo, come ha ricordato il Capo dello Stato.