5 gennaio 2007
Il presidente Napolitano ha, con grande efficacia, stimolato una robusta accelerazione nel dibattito politico intorno alla riforma del sistema elettorale. E lo ha fatto nella cornice di una più generale preoccupazione sul funzionamento delle nostre istituzioni. Il diffuso plauso all’iniziativa presidenziale è andato nei giorni sfumando nelle consuete dispute paralizzanti dentro le due coalizioni, condizionate da un clima di palese diffidenza tra tutti gli attori.
Penso che dovremmo fare tutti uno sforzo di chiarezza e di sincerità, prima di tutto nello schieramento di centrosinistra.
Dobbiamo dirci se davvero vogliamo cambiare la legge elettorale che tutti ritengono dannosa per il nostro sistema democratico. Se questa è la nostra intenzione, se pensiamo di poterlo fare con i soli voti della maggioranza.
E se in questo caso siamo certi di avere gli indispensabili voti dei senatori a vita oppure se intenderemmo, in materia elettorale, ricorrere al voto di fiducia. A questi interrogativi dovremmo offrire tutti una risposta non elusiva.
A me pare che, non per disposizione all’inciucio ma per coerenza con le cose dette un anno fa, per ragioni di principio e di fedeltà allo spirito della Costituzione e, se si vuole, per necessità, dovremmo impegnarci a ricercare una soluzione condivisa da una più larga platea parlamentare.
In questa prospettiva non si può ragionevolmente immaginare che la maggioranza prima definisca un suo testo e poi chieda, con graziosa concessione, all’opposizione di adeguarsi. E neppure si può pensare che all’interno della maggioranza il confronto possa essere preceduto da posizioni rigidamente preconfezionate e accompagnate dalla clausola dissolvente della minaccia di rottura della coalizione. Non mi pare sia questo il metodo migliore per affrontare la complessa stagione politica che ci attende. Sarebbe per converso auspicabile che, in questa fase, definissimo gli obiettivi condivisi subordinando a questi la scelta dei meccanismi più coerenti. Il tema vero sotteso a questa discussione è la crisi della nostra democrazia. Non è arrivata all’approdo la lunga transizione, iniziata con il declino dei grandi partiti popolari protagonisti della prima fase della vita repubblicana.
Il punto più critico chiama in causa il ritardo di efficienza delle istituzioni democratiche rispetto ai tempi dell’economia, della scienza, della vita di un mondo regolato dall’interdipendenza. I Governi e i Parlamenti nelle democrazie europee, e più acutamente in Italia, registrano un difetto strutturale di capacità decidente e, per converso, i lenti riti della politica non assolvono neppure al bisogno irriducibile di partecipazione di una società informata ed esigente. È questione aperta dai tempi della Bicamerale presieduta da Massimo D’ Alema, quando ci fu l’ultimo serio tentativo di trovare una risposta condivisa al bisogno di armonizzare forma di governo e legge elettorale.
In questi anni è cresciuta, in mezzo a mille contorcimenti, la consapevolezza che occorre risolutamente passare dalla democrazia della rappresentanza, fondata sul prevalente bisogno di includere dentro le istituzioni culture e interessi a esse esterni, alla democrazia governante, segnata dalla responsabilità di offrire risposte ai problemi della complessità sociale e alle nuove domande di libertà.
Mi pare sia questo il punto da cui dobbiamo partire nel dibattito sulle riforme.
Noi pensiamo che sia necessario consolidare il sistema bipolare per regolare la democrazia dell’alternanza, che governi stabili di legislatura debbano essere chiaramente proposti al cittadino-arbitro e da questo esplicitamente scelti, che la difesa delle identità politiche dei partiti non debba coincidere con una patologica frammentazione che genera le attuali venticinque formazioni presenti in Parlamento. La discussione preliminare deve sciogliere i nodi politici di sistema per verificare seriamente se è praticabile la strada della riforma. Esistono altre possibilità? Certamente esiste la possibilità di tenersi questa brutta legge ormai orfana, dileggiata da tutti. A quel punto il referendum avrà il suo corso, ma la politica non farà passi avanti per guadagnare la fiducia dei cittadini.