Consiglio regionale, ottobre 1989
Due sono i temi sui quali si è articolata e si articola questa nostra occasione d’incontro e di riflessione, forse non solenne quanto alcuni nostalgici del cerimoniale avrebbero voluto, ma certamente partecipata, non solo nella nostra sensibilità ma anche nel senso dell’attenzione che viene a questa Assemblea dalle centinaia, forse migliaia di persone che in questi giorni si sono riunite nei consigli comunali, provinciali, nelle assemblee di fabbrica, rivolgendo al Consiglio regionale insieme al corpo della rappresentanza parlamentare dei sardi un’attenzione, una aspettativa che noi dobbiamo sforzarci di non deludere.
E dovremo farlo andando al di là delle nostre capacità di sottolineatura dei punti di convergenza e di quelli di dissenso, che credo rimangano tutti inalterati rispetto a quelli che nelle scorse settimane abbiamo manifestato in Consiglio regionale.
Tutti abbiamo avuto in questi giorni la consapevolezza di un passaggio straordinario nella vita della nostra Assemblea. Abbiamo avvertito le dimensioni di una crisi possibile, al di là di quella dichiarata e manifesta. E paradossalmente abbiamo compreso che questa crisi è diventata più acuta e il malessere della nostra comunità regionale più lacerante, proprio nel momento in cui il Consiglio regionale si è dato un disegno, un percorso verso lo sviluppo, un piano di riferimento per la sua attività di governo.
E abbiamo percepito quanto sia impegnativo lo spessore delle resistenze, delle difficoltà che si pongono per l’autonomia regionale della Sardegna. Mentre cresce in tutti noi l’aspirazione a vivere più intensamente, in maniera più partecipata, le trasformazioni, la crescita, la cultura del mondo, abbiamo percepito quanto sia forte il pericolo di essere respinti in una dimensione chiusa, tutta rivolta verso il passato.
Certo abbiamo la consapevolezza della fase di recessione economica, della caduta di tensione meridionalista. Sappiamo che esistono le leghe e sappiamo che il leghismo non è solo quello del Nord ma è una tendenza che ogni tanto si sente affiorare al di là della dimensione geografica del nostro Paese. Né ci favorisce la congiuntura di estrema incertezza politica e istituzionale.
Abbiamo registrato una larga convergenza su queste valutazioni così come larga è stata la convergenza maturata sul percorso che dovremo compiere.
Abbiamo condiviso le scelte strategiche contenute nel Piano di sviluppo, le scelte contenute nei documenti che abbiamo a più riprese approvato in queste settimane.
In questa scelta è riaffermato con forza e con determinazione il ruolo insostituibile del nostro sistema industriale e, all’interno di esso il ruolo della chimica.
Noi sappiamo che la chimica non potrà essere il futuro del nostro sviluppo, così come sappiamo che il tessile, l’alluminio, non saranno – nei tempi lunghi – il futuro del nostro sviluppo. Ma sappiamo che oggi non possiamo permetterci di farne a meno.
E questa nostra prospettiva industriale avrà un senso in una logica di integrazione.
Per questo qualunque cancellazione, qualunque mutilazione di questo debole apparato industriale rappresenta una mutilazione non di un sito ma dell’insieme della prospettiva che ad esso è legata.
Ma questa convergente valutazione sui caratteri della crisi, sullo scenario che è aperto, sulle prospettive che abbiamo davanti, credo non ci debba sottrarre da una riflessione sull’altro aspetto del problema, dal giudizio sulle cose fatte, sullo stato attuale delle nostre questioni. Noi vogliamo esprimere con chiarezza, perché non ci sia dubbio, l’intera e motivata solidarietà e il partecipe consenso sulla linea e sugli atti di governo, sulle iniziative messe in essere dal Presidente e dalla Giunta regionale.
E tuttavia se ci siamo qui riuniti vuol dire che tutto quello che di ordinario e di straordinario si è fatto in questo tempo forse non è sufficiente perché si pongono problemi più complessi e decisamente non consueti.
E’ necessario un giudizio sulla nostra capacità di essere coerenti con gli indirizzi, di essere all’altezza dei compiti che sono dati all’insieme della dirigenza della Sardegna. Dobbiamo mettere in discussione i poteri, e insieme, l’uso che dei poteri si è fatto in questi anni: non per fare esercizio di astratta e inutile autoflagellazione, che non giova alla causa come non giova l’esercizio di camaleontismo che ogni tanto sembra affiorare in questi tempi.
Al di là delle convenienze polemiche, nessuno di noi può mascherare l’oggettiva debolezza della nostra Autonomia regionale e nessuno in questa materia, io credo, può salire in cattedra.
La dirigenza sarda nel suo complesso, per molte generazioni, ha scandito, con una presenza abitualmente non breve nelle istituzioni, il divenire e il declinare della nostra Autonomia speciale. Ma sarebbe grave se oggi noi pensasj simo di poter dissimulare il sentimento di inquietudine che avvertiamo, essendo consapevoli del peso non adeguato, non sufficiente di questa Regione.
E la Regione, l’Autonomia nella nostra concezione non è il Consìglìo regionale, non si esaurisce negli 80 consiglieri regionali, non si pone in un atteggiamento dualistico o di contrasto o di alternativa al ruolo, al peso che deve avere la delegazione dei parlamentari nazionali ed europei, non si pone in alternativa al peso che nella dirigenza dispiega l’insieme delle forze produttive e del lavoro.
E’ l’insieme delle sinergie, delle intelligenze, delle volontà che possono riconoscersi nel futuro di un disegno, nella coscienza che il nostro disegno, il nostro essere specifico nella realtà nazionale debba essere tutelato e difeso e rappresentato.
E allora la debolezza che noi oggi avvertiamo nella politica italiana è la debolezza della Sardegna, della quale noi ci facciamo carico ognuno per la parte che gli compete. Perché avranno pur pesato nel corso degli anni, dei tanti anni, le nostre complessive responsabilità, i nostri conflitti spesso inutili, le litigiosità presenti dentro il Consiglio regionale, spesso per ruolo di parte, ma anche all’esterno del Consiglio regionale.
Avrà pesato la competizione esasperata verso il basso che abbiamo dispiegato in questi anni nei ruoli di ostruzione spesso inutile, spesso improduttiva, la frammentazione degli interessi che abbiamo avvertito, il tentativo individuale neppure di partito, spesso solo personale – di ritagliarsi nicchie di privilegio presso la corte del Re. E allora non sarà incomprensibile se sorge il sospetto che nessuno ci prenda sul serio, o almeno che non ci prenda sul serio quanto sarebbe necessario.
E se il presidente dell’IRI dice che l’IRI è presente in Sardegna misurando la presenza dell’IRi in Sardegna sul consumo delle linee telefoniche o se il presidente dell’ENI dice che l’ENI ha dispiegato una sua presenza in Sardegna misurando la presenza dell’ENi in Sardegna sul consumo dei carburanti, questo avrà pure un significato. E se l’accordo di programma per la Sardegna centrale vede tirar fuori dai fondi di magazzino mille progetti obsoleti che spesso sono mille commesse, forse sono mille concessioni, questo non è o non sarebbe un Accordo: sarebbe solo un segno gravissimo di subalternità al quale rischieremmo di essere condannati.
Questa tendenza va contrastata e va invertita. Ed è per questo, per contrastare queste tendenze, per fare pesare di più la Sardegna nella sua interezza, nella complessità degli interessi veri che vanno difesi e rappresentati, che serve l’unità convinta dei partiti, ma anche delle persone che sono qui presenti.
L’unità non è, signor Presidente, un talismano per ritrovare antichi splendori autonomistici ma è certo la precondizione per ritrovare prima di tutto il consenso dei sardi e il rispetto della comunità nazionale.