DC Sardegna, luglio 1991
Il voto sul referendum del 9 giugno e quello per il rinnovo dell’Assemblea siciliana segnano i contorni di una stagione politica particolarmente ricca di fermenti e insieme di suggestioni.
Il primo ha espresso in modo inequivocabile il sentimento diffuso di insofferenza per i partiti e per la loro invadenza rispetto alla società civile.
Le elezioni siciliane, con un successo a tutto tondo della Democrazia Cristiana e con una palese polverizzazione delle possibili alternative, esprimono una domanda di forte stabilità e di governabilità: un equilibrio che diradi la nebbia di incertezze e di confusione che hanno caratterizzato la politica italiana negli ultimi tempi.
Sia il primo che il secondo test elettorale rappresentano un’espressione chiara e forte dei bisogni presenti nella coscienza popolare degli italiani: costituiscono le credenziali di una domanda politica inappagata.
Per noi il problema è da tempo iscritto all’ordine del giorno.
Partecipi della proposta parlamentare di riforma del sistema elettorale, ci disponiamo a confrontare in Consiglio regionale le nostre opinioni in laica apertura al contributo di tutti i gruppi.
Sarebbe tuttavia velleitario pensare che la risposta cui siamo chiamati possa risolversi in un’opera di ingegneria istituzionale.
Circola diffusamente la congettura che assegna alla riforma del sistema elettorale la dignità di una nuova regola etica della politica e identifica nel trasferimento del potere dai partiti alle persone (del Presidente, del Sindaco, del Deputato eletto nei collegi uninominali) la quintessenza di una nuova moralità.
Le perplessità su questa corrente di pensiero sono destinate a crescere con l’approssimarsi del momento deciso.
E peraltro verso la riproposizione da parte di taluni, anche in Sardegna, di semplificazioni alternativistiche interamente ancorate a vecchi schemi dell’unità delle forze di sinistra mi sembra più una confessione di sfiducia che una proposta di governo del nuovo.
Per trovare una qualche ispirazione ai nostri comportamenti occorrerà forse rivolgere la riflessione al di là del contingente e ricercare le ragioni più vere della nostra incertezza.
E forse scopriremo che affonda le radici nel cuore delle grandi trasformazioni che in questi anni hanno modificato la nostra vita, cambiando insieme allo scenario, il costume, i modelli, il linguaggio stesso attraverso il quale ci esprimiamo.
In questo cambiamento sembra che si siano dispersi alcuni valori, e primo fra tutti quello della solidarietà. E sarà per noi ancora più necessario riflettere sul destino della Sardegna dentro questi processi, consapevoli che su questa scala si dispiegano le nostre responsabilità.
Molti nostri valori, molte nostre scelte sembrano smarriti o comunque rimessi in discussione.
L’autonomia, la nostra specialità, il valore della nostra identità, lo spirito dell’art. 13 dello Statuto speciale, la nostra economia fondata in larga misura sulla presenza dell’intervento pubblico, il meridionalismo come scelta irreversibile: queste e tante altre certezze sono state profondamente ridimensionate.
Le trasformazioni economiche, la mondializzazione dei processi favoriscono i centralismi; l’esigenza di accorciare i tempi della decisione spinge verso la concentrazione dell’economia, dell’informazione, della politica.
Gli spazi per la partecipazione sono contratti e ridotti: nasce la crisi delle autonomie in una società in cui l’enorme dimensione dei processi allontana dai problemi della persona e fa apparire marginali e rarefatte, le differenze le etnie, le identità.
La grande omologazione fa crescere nuovi formidabili bisogni di tutela della identità che restano comunque inappagati.
Le grandi trasformazioni politiche del 1989 hanno generato due impulsi in qualche modo contraddittori. Da un lato un impulso di solidarietà per i popoli liberati, dall’altro l’esaltazione del sistema capitalistico, della competizione, del mercato come espressione in¬coercibile della libertà.
Il secondo impulso ha finito col prevalere sul primo, ingenerando una nuova grande illusione collettiva.
In quella suggestione vanno ricercate le origini di una cultura leghista che ha messo in eclissi il meridionalismo di Saraceno e, per quanto ci riguarda, ha generato la premessa per la crisi del nostro sistema industriale.
Le trasformazioni dell’economia e della politica si accompagnano ad altrettanto profonde mutazioni degli equilibri sociali.
Una progressiva differenziazione dei soggetti, col proliferare di interessi, sensibilità, bisogni ha generato una costellazione sociale senza precedenti, quella società complessa di cui sfumano sempre più le geometrie.
Insieme al permanere delle vecchie povertà si diffondono quelle nuove, cosiddette postmateriali, riferite alla qualità della vita, al disagio di convivenza e di cittadinanza, alla difficoltà a partecipare alla vita di comunità, alla solitudine.
Anziani inabili, handicappati, tossicodipendenti, lavoratori stranieri, disoccupati non più giovani diventano protagonisti di un fenomeno che ha effetti dirompenti nella società moderna in cui la soggettività generalizzata, frutto della polverizzazione sociale, è carattere centrale.
In Sardegna convivono i due aspetti della povertà: quella tradizionale – presente al di là della dissimulazione che gli ammortizzatori della ruralità riescono a operare – e quella nuova intensamente vissuta e sofferta.
Le tante povertà, che sono nuove perché vissute come tali, si proiettano in un sentimento collettivo: quella coscienza infelice del popolo sardo che ha radici antiche, sedimentato com’è nei secoli di consapevolezza di minori chances, di bisogno di giustizia e di cittadinanza e, insieme, di insoddisfazione per una regola che ci vuole subordinati e dipendenti a chi in passato era “il nemico venuto dal mare” e oggi i sacerdoti di mercato-feticcio.
Ecco, in questo quadro di riferimento occorre trovare un approccio che sappia essere persuasivo e praticabile, al di là delle suggestioni, al di là degli umori mutevoli che un’informazione senza argini ispira e rimuove con velocità imprevedibile.
E dobbiamo fare ricorso a tutte le nostre risorse di intelligenza, di storia, di sensibilità, di riflessione; alle nostre virtù di comprensione della complessità sociale e del pluralismo di orientamenti culturali della nostra modernità.
Noi, più degli altri, abbiamo il dovere e, insieme, il vantaggio di cogliere l’Enciclica Centesimus Annus come occasione provvidenziale per un discernimento maturo e responsabile.
Può darsi che dia fastidio all’on. Martelli, ma noi continuiamo a trovare nella dottrina sociale della Chiesa, nel Magistero del Pontefice una ispirazione inesauribile per un paragone teso ed esigente che misuri la coerenza della nostre politiche con i nostri valori.
Questa coerenza sarà la bussola della nostra presenza politica nella prossima sessione istituzionale in Consiglio regionale.