DC Sardegna, aprile 1992
Il voto del 5 aprile, per la complessità e per la novità delle tendenze manifestate, suggerisce diverse e forse incerte riflessioni – affatto conclusive – piuttosto che un giudizio presuntuoso e liquidatono.
Al fondo delle cifre e delle percentuali sembra esistere un fermento formidabile e in larga misura inesplorato della società italiana.
Un fermento di sentimenti e di orientamenti del comune pensare della gente che non si traducono in uno schema riconducibile alla politica tradizionale.
Esiste certamente la stanchezza per un sistema di democrazia a ricambio limitato, ed esiste una diffusa insofferenza per il permanere di numerosi ritardi nel governo dell’economia, dei servizi, della giustizia.
Ma in fondo questi temi e queste ragioni di dissenso corrispondono alle tradizionali questioni di ogni democrazia parlamentare: e il risanamento e la risoluzione sono dentro l’orizzonte delle cose possibili.
A me pare che l’inquietudine di questi nostri tempi abbia un carattere di natura diversa, che affondi le sue radici in un sentimento individuale di smarrimento di molte coordinate che erano diventate consuete. E non solo le vecchie ideologie, ma anche la gerarchia dei valori, il confine fra le cose possibili e quelle giuste.
E’ in crisi e va ricostruita quella trama fitta e persuasiva di valori e di convenzioni che da sempre sono capaci di dare ad un popolo il senso di un’impresa comune.
Il pragmatismo post ideologico ha alimentato la cultura di un nuovo egoismo sistemico e rischia di cancellare con incredibile rapidità sia i caratteri dell’identità nazionale sia la dimensione etica della politica.
E’ rimessa in discussione la struttura organizzativa dell’attuale statualità ossia quel tessuto di reciprocità che lega in unità di cittadinanza un popolo.
Si avverte come problema ineludibile il bisogno di rifondare – ritrovandone le basi etiche – il nesso di affezione che lega il cittadino alle istituzioni.
E allora quella domanda di riforme vissuta da tutti noi come un’occasione per ricominciare, per rifondare la Regola, non può risolversi solo con un arido elaborato di nuovo sistema elettorale.
Certo dovremo – e subito – riscrivere le norme per scegliere parlamentari e governi, trasferendo il potere di decisione ai cittadini, eliminando nicchie di privilegio e rendite inossidabili.
Ma il bisogno di rinnovamento più profondo riguarda la qualità della politica.
Quella degli eletti, delle classi dirigenti che appaiono gravate da una sorta di ”diritto di consuetudine”, impermeabile alla sollecitazione di cambiamento quando questo riguardi se stessi.
E’ all’ordine del giorno il problema di sostituire una dirigenza che – un po’ in tutti i partiti – si è spesa e consumata in una fase storica diversa e trova difficoltà a percorrere il nuovo.
Non mi pare sia utile concepire il nostro domani come una resa dei conti, né può tutto ridursi ad una riverniciata versione dell’alternativa alla Democrazia Cristiana, peraltro imperniata su protagonisti vecchi e perdenti.
Forse si tratta di ricercare, in uno sforzo di coralità propositiva, le regole per incidere più profondamente nella selezione della dirigenza, per trovare una dimensione della politica che, ad esempio, sia immunizzata dai rischi ordinari di contiguità con gli affari, che escluda l’arbitrio e la discrezione come privilegio feudale, separando più nettamente politica e gestione.
Molti vorrebbero rimuovere i partiti: io credo che bisognerebbe garantirne piuttosto democrazia vera, trasparenza e opportunità di controllo. E farlo con norma legislativa. In fondo sarebbe una profonda mutazione per tutti i partiti che sono comunque costretti a rinnovarsi.
E tuttavia la riforma della politica deve riguardare anche gli elettori.
Non si fa molta strada se non si supera la dimensione radicale della domanda, che esalta il particolare e gli egoismi e trascura la qualità e la veridicità dell’offerta di governo.
C’è molta gente che pensa di superare la crisi denunciandola: e c’è troppo gratuito favore per chi si esercita in questa attività soprattutto se combinata con buone doti di spettacolo.
Deve riguardare anche gli elettori l’ambizione di interrompere la pratica di scambio potere-consenso: perché c’è chi dispensa il bene pubblico come cosa privata ma c’è anche troppa gente che ritiene di premiare col voto i cosiddetti benefattori.
Abbiamo tutti un qualche obbligo di autocritica, rinunciando per una volta al rito scontato di lettura di ogni problema in chiave di schieramento.
In questi anni abbiamo forse inseguito e non preceduto l’attualità, incapaci di esprimere una progettualità comparabile a quella manifestata negli anni della ricostruzione e poi ancora negli anni del centro sinistra.
Ora è tempo di nuove esperienze e di un nuovo confronto per rinnovare la democrazia italiana.
Quello che mi sembra spropositato – anche e soprattutto in seguito al dato elettorale – è la suggestione di un anno Mille della politica italiana.
Esiste il rischio concreto di spostare tutta l’attenzione e tutta la tensione sul fronte di una riforma che faccia di colpo diventare tutti buoni i cattivi, tutti onesti i ladroni e tutti leali con il fisco gli evasori.
La sfida più immediata risiede nel risanamento delle finanze pubbliche e nel contestuale mantenimento dello Stato sociale.
Questo punto di equilibrio rappresenta in verità l’ambizione della politica italiana: la nuova classe dirigente, che vogliamo più onesta e più competente, deve misurarsi su questa frontiera per meritare un consenso non fatuo ed emotivo.