Discorso del 16 ottobre 1993 all’Assemblea Regionale Costituente del Partito popolare
La mia gratitudine per i molti amici che in queste settimane mi hanno incoraggiato a presentare la mia candidatura, senza patteggiamenti, è sovrastata dal sentimento di inquietudine per la difficoltà della sfida nella quale intendo misurarmi. Inquietudine per l’orizzonte carico di incertezze e di ostacoli che segnano il tempo della nostra politica, inquietudine per la consapevolezza dei limiti dentro i quali dovremo operare per costruire, col vostro consenso e con l’aiuto di Dio, un nuovo soggetto politico che sappia coniugare la nostra storia con i nostri nuovi doveri.
Perché la crisi del sistema politico si intreccia con la crisi più acuta del nostro sistema economico. La coscienza dei limiti di uno sviluppo che prima ci pareva inarrestabile si accompagna alla disgregazione di antiche certezze in ordine ai poteri delle democrazie occidentali e le nuovo sfide ci appaiono qualche volta impossibili.
Nell’Italia delle mille proteste, in cui tutti combattono contro tutti, la Sardegna vive il dramma di una congiuntura straordinaria. Viviamo una stagione carica di tensioni sociali, scandita da licenzia¬menti e chiusure nel comparto industriale, dall’esasperazione del mondo rurale, dal silenzio sconfortato degli oltre duecentomila gio¬vani senza lavoro. I disoccupati sono i convitati silenziosi di questa nostra Assemblea, il riferimento che abbiamo lucidamente e plasticamente presente mentre partecipiamo alla nascita di un nuovo soggetto politico che nel suo nome vuol significare un’adesione forte e sincera agli interessi popolari del nostro Paese.
Per questi interessi, che vogliamo rappresentare, abbiamo l’obbligo di proporre risposte, di offrire governo alla domanda sociale che sale dalle nostre comunità. Io penso a questa sfida quando immagino il nostro nuovo partito. Un partito popolare, laico, autono¬mista, di ispirazione cristiana. Un partito che ritrovi la freschezza dell’ispirazione ideale dell’umanesimo popolare cristiano, sedimentato da secoli nella coscienza nazionale ma alimentato dalle irriducibili esigenze di identità culturale e di emancipazione sociale che hanno segnato la storia dei ceti popolari in Italia.
Il nuovo partito popolare non può essere solo un fatto organizzativo: è prima di tutto una scelta precisa e coraggiosa di novità politica.
Noi compiamo oggi un atto straordinario. Prende corpo in Sardegna l’idea centrale della proposta Martinazzoli: quella di promuovere la convergenza di tutte le realtà che davvero si sentono impegnate per una democrazia e per un progetto civile e sociale coerente con il patrimonio storico del movimento cattolico. E voglio dire che questa non è una operazione di surrettizia ricomposizione dell’area cattolica in ragione della teoria dell’unità dei cattolici affermata a priori. Rappresenta un processo di identificazione delle mete politiche, degli obiettivi che sentiamo comuni e, insieme, della scelta dello strumento partito come libera opportunità per conseguirle. E serve sottolineare che un progetto che nutra questa ambizione non potrà riproporre modelli e uomini adatti ad altre epoche, ma dovrà farsi carico dell’attuale orizzonte di società, con i suoi nuovi problemi, le nuove utopie.
Io condivido per intero il documento costituente proposto da Pietro Soddu, per il quale voglio esprimere il mio apprezzamento, la mia gratitudine, la mia amicizia che ha radici lontane e che sopravvive alle divergenze che pure non sono mancate: a quel docu¬mento faccio riferimento per le valutazioni che non svolgerò.
Abbiamo intrapreso una strada nuova né facile né scontata: ma quanto più alta è la posta tanto più sapremo trovare il senso giusto e persuasivo dell’associazionismo politico nello spirito autentico della previsione costituzionale. Un partito di cittadini protagonisti del loro libero associarsi, non oggetto passivo – e quante volte ignaro – di iniziative affidate alle burocrazie dirigenti. Non dovremo più consentire nel nostro lessico il termine “far tessere”, che evoca l’idea di procurare oggetti, numeri, comparse di una commedia in cui gli attori sono già in campo.
Dovremo tutti vivere l’adesione come occasione per partecipare alla vita di un partito leggero di burocrazie e di appartati, più luogo di confronto e discussione e sempre meno – spero mai più – canale necessario e ineludibile per declinare la politica come mestiere.
Mi chiedo se riusciremo a cancellare la congettura della politica, della presenza nelle istituzioni come un bene di consumo che al massimo, nelle migliori condizioni, può essere ottenuto facendo i turni.
Dovremo riuscire in quest’idea. E non sarà facile ritrovare il consenso. Perché il nostro rapporto con i cittadini si apre sulla frontiera di un diffuso sentimento di delusione e di sfiducia, di rabbia e pregiudizio, di umoralità e, se si vuole, di conformismo esclamativo. In questa frontiera la nostra capacità di persuadere si giocherà più sui gesti, sulla concretezza delle cose modeste e quotidiane che sapremo fare nei luoghi delle nostre responsabilità.
Dobbiamo riguadagnare la fiducia della gente, cominciando dalle nostre famiglie, dai nostri compagni di studio e di lavoro: nel
quotidiano della nostra vita. Dobbiamo sentirei protagonisti, qualunque sia il nostro ruolo, di una stagione di riforma della politica. E la riforma della politica ci riguarda tutti. Riguarda gli eletti, ma anche gli elettori. Non faremo molti passi in avanti se non sapremo dismettere la dimensione radicale della domanda, che esalta il particolare e gli egoismi e trascura la qualità e la veridicità dell’offerta di governo.
E giusto pretendere rigore dagli eletti: ma deve riguardare anche gli elettori l’ambizione di interrompere la pratica dello scambio potere consenso.
Perché c’è stata, in tutti questi anni, una diffusa consuetudine a dispensare il bene pubblico come cosa privata: ma anche troppa gente che ha voluto premiare col voto i cosiddetti benefattori. E dovremo sviluppare uno sforzo straordinario di ricambio della classe dirigente. Senza inutili massimalismi e per quanto sarà possibile in un clima di grande unità interna dovremo cambiare la fisionomia delle nostre liste di candidati. Io vedo questo appuntamento non come una resa dei conti, un processo punitivo e sanzionatorio, ma come un comune disegno di rinnovamento nell’interesse delle idee che vogliamo rappresentare. Non sfugge a nessuno di noi che esiste nel Paese, tra la gente comune un sentimento di forte ostilità nei confronti di una stagione politica che è stata.
Al di là della ragione, nella coscienza popolare esiste una generazione politica che ha impersonato una storia, che ha identificato un’epoca. E di quell’epoca vengono evocate le cose negative, gli errori, le compromissioni, la caduta verticale della moralità e della legalità. Nella coscienza popolare, nell’immaginario della gente esiste un ceto politico che va sostituito. Noi dobbiamo avere il coraggio di scegliere il cambiamento, il rinnovamento delle dirigenze per un atto volontario di generosità se vogliamo evitare l’approdo ad un rinnovamento subito.
Non c’è in questo orientamento un giudizio di merito – che invece è in tanti casi largamente positivo. Esiste piuttosto una ineludibile necessità di far sopravvivere le nostre idee e le nostre ispirazioni ai nostri personali destini. Per questo al di là delle regole, che pure dovremo ricercare confermando le precedenti e se occorre, rendendole più severe, esiste un codice etico – nel senso di bene comune – al quale ancorare una linea che sarà di sicuro e deciso rinnovamento. E d’altra parte a me pare che dovremo abituarci ad un nuovo sistema di selezione delle classi dirigenti che risponde ai caratteri del presente tempo politico. Per questo è giusto che io ritorni su alcune riflessioni sviluppate nelle settimane scorse, fonte di molte incomprensioni e di qualche contrasto. E’ giusto che tutto sia chiaro e nulla venga concesso all’equivoco.
Ho sostenuto che il presente della società italiana è segnato da una transizione, complessa e spigolosa, tra due modi di essere della politica.
Il vecchio sì è concluso – e neppure nel modo migliore – il nuovo è ancora incerto, come avvolto nelle nebbie di una indeterminatezza fatta di speranze e insieme di negazioni. E sicuro che quello che non vogliamo, nessuno più può volere, è l’ingombro esasperato dei partiti nelle istituzioni. E ancor meno quella parte dei partiti che esprime l’ansia di occupare piuttosto che il desiderio di suggerire. I partiti devono arretrare per ritrovare pieno il senso della funzione alta che la democrazia moderna assegna loro. Va ritrovata e praticata l’idea sturziana di un partito che ha la consape¬volezza della propria natura “artificiale”, tramite di raccordo tra società e Stato, senza mai pretendere di identificarsi né con l’una né con l’altro, senza mai tentare di sostituirsi ad essi. E quest’idea va riproposta, rimuovendo la pretesa partitocratica di concludere la complessità sociale, l’enorme potenzialità delle tante autonomie che si muovono dentro la cultura postindustriale. E se non bastasse una moderna coscienza del nuovo, la scelta del sistema uninominale maggioritario si costringe a pensare ad un approccio più prudente nelle procedure di formazione delle nuove classi dirigenti che si candidano al governo delle istituzioni.
La consapevolezza che dentro tutti gli schieramenti esistono incertezze, dubbi, volontà inespresse di concorrere ad un nuovo progetto di società, deve sollecitare il nostro interesse di concorrere ad un nuovo progetto di società, deve sollecitare il nostro interesse ma anche una sincera volontà di esplorare sentieri sconosciuti. Purché non si appanni la nostra identità che deve essere tanto più marcata quanto più sbiaditi sono i confini delle vecchie formule e quanto più prepotenti sono le tentazioni del trasformismo.
Ho anche detto che bisogna essere intransigenti sulla questione morale: la classe dirigente che dovremo proporre ha necessità del requisito dell’onestà. Dobbiamo essere e apparire un partito di gente onesta.
Ho fatto male a dire queste cose? Non dobbiamo dirlo? Ma questa è condizione da sola insufficiente, come si dice, prepolitica. Dobbiamo essere un partito che premia la competenza e il merito: perché l’esperienza degli ultimi anni, quella del degrado e della deriva è stata un’esperienza che ha subordinato la competenza alla fedeltà personale, che ha subordinato il merito all’appartenenza di fazione. Ma anche questo non basta. Dobbiamo essere un partito esigente di coerenza tra l’ispirazione e i comportamenti. Abbiamo visto troppe volte ottimi programmi sottoscritti da cinici protagonisti, fautori di tesi avverse; non bastano i programmi, contano anche le biografie: che non sono tutte eguali e indistinte. E dovremo essere un partito capace di mettersi in discussione con tanta franchezza quanto grande sarà la disponibilità al confronto.
La prima virtù che mi sembra doversi richiamare è quella della tolleranza: come costume fondante la nostra identità. Un partito tollerante e insieme orgoglioso del proprio patrimonio di idee e di storia. Saremo un partito aperto al confronto che misura le distanze e le affinità degli altri sui contenuti della politica e sulla coerenza dei protagonisti senza pregiudizi e senza nostalgie. Ma con tanta fermezza quanto sapremo essere esigenti verso noi stessi.
Valuteremo i programmi ma anche le persone candidate a gestire i programmi, con l’ambizione di evocare dentro tutti i partiti il meglio della dirigenza per il governo delle istituzioni.
A fronte di questa posizione, in queste ultime settimane, abbiamo visto ricomparire sigle e bandierine di un passato che pensavamo concluso. C’è chi ripropone lo schema dell’unità delle sinistre o come talvolta si dice – per definire la stessa cosa – l’unità delle forze progressiste. Dove la condizione di progressista si misurerebbe dal grado di affinità al partito della quercia, proprio come si faceva qualche anno fa da parte dei comunisti. E per converso riappare una pregiudiziale attribuzione di ruolo conservatore e regressivo al partito che meglio di ogni altro ha saputo intercettare le tendenze della nostra civiltà.
Voglio dire che mi pare che tutto questo avvenga nel segno di un rinato manierismo ideologico che resiste alla fine di tutte le ideologie. Non si può condividere l’impostazione di chi, avendo rimosso il suo ingombrante passato e i suoi errori, pretende di rievocare contro di noi le ragioni del passato.
Ma noi dovremo misurare le nostre tesi sul presente e sul futuro. Dovremo essere giudicati per quello che davvero rappresentiamo, per quello che siamo, per le nostre idee e per i nostri programmi assai di più che per gli errori compiuti dagli uomini della Democrazia Cristiana. Senza pregiudizi e senza presunzione. Siamo un partito popolare che nella sua ispirazione trova la bussola per muoversi verso il progresso dell’uomo, né giacobino né radicale, perché abbiamo presenti le diseguaglianze e le ingiustizie che vorremmo rimuovere; temperato come si conviene a chi – come noi – ha una concezione metapolitica della propria storia.
Questo sarà il nostro nuovo soggetto politico, per il quale pretendiamo attenzione e rispetto, tanto quanto noi sapremo essere rigorosi ed esigenti con noi stessi. L’unica pretesa che accampiamo
– ma e anche il limite e il rischio della nostra esperienza – è quello di un paragone sempre teso e puntuale tra la nostra ispirazione e i nostri comportamenti Se questo sarà il nuovo della politica, sembrerà davvero fuori posto il ricorso a schemi e nominalismi di un vecchio sistema, come quello per cui Mario Segni, nel commento di Occhetto, in poche settimane è passato dalla condizione di prototipo del nuovo e del progressivo fino a diventare reazionario e traditore.
Confido che in Sardegna il dibattito possa trovare una dimensione più mite e tollerante e soprattutto più concretamente informata all’offerta di governo che sapremo produrre. Perché noi non riusciremo a partecipare consapevolmente e utilmente alla rinascita del Paese, al processo di costruzione dello Stato sovranazionale europeo se non faremo tutto il nostro dovere per restituire lo spessore della fiducia, della affezione reciproca, al filo che lega l’Autonomia regionale con la comunità dei sardi. Questo nesso di credibilità e di affezione si è profondamente e rovinosamente allentato. Noi siamo consapevoli che la Regione ha cessato dì essere nel cuore dei sardi il terminale insostituibile di tutte le speranze e di tutte le utopie. Ma proprio in ragione di questa consapevolezza spetta a noi, che abbiamo l’orgoglio di una storia tutta intrecciata con l’autonomia per una vocazione né recente né strumentale, spetta a noi riprendere il testimone dell’autogoverno dei sardi. E lo faremo partendo dalla convinzione che quello che giova al nostro Partito è ciò che giova alla Sardegna. La nostra vicenda politica sarà se saprà identificare come meta ineludibile gli interessi della Sardegna in un ordito che sarà persuasivo se avrà i caratteri delle cose visibili.
Ecco, dì una cosa sono certo: avremo consenso se la gente riuscirà a comprendere e apprezzare la visibilità della vita politica. E per la gente, per chi la politica la vive nei suoi effetti, per chi oggi si sente esasperato e deluso, il dato che vale non sta più nei propositi ma nella concretezza di risultati, nell’efficienza della pubblica amministrazione, nel buon governo. E dovremo trovare l’energia e il consenso per dare corpo al nuovo governo della Sardegna nel segno di una moderna saldatura tra sviluppo e solidarietà, nella dimensione di una nuova specialità del nostro statuto, ma, insieme nella concretezza di una politica di relazioni efficienti con l’Europa e con il Mediterraneo. Un progetto per la Sardegna che esalti i valori della nostra identità, che è fatta i cultura e di ambiente naturale, di storia e di lingua: e su questi valori, sulla qualità Sardegna costruisca un nuovo protagonismo nelle relazioni della nostra economia.
E dovremo ricercare una nuova stagione all’Autonomia, un nuovo tempo dello sviluppo che abbia insieme il consenso ma anche la partecipazione, la passione dei cittadini: per questo occorre aprire la Regione, scoprendo tutte le nicchie di parassitismo che viene da lontano, inossidabile e prepotente, per questo occorre eliminare le monarchie e i principati che vivono nel Palazzo dell’Autonomia.
In questo spirito pensiamo al futuro governo della Sardegna, conservando nel presente un sostegno pieno e leale alla Giunta guidata da Antonello Cabras. Lo ha ricordato ieri Pietro Soddu. Noi abbiamo scelto di dare vita a questa Giunta di programma di fine legislatura nel nome della politica di emergenza economica ed istituzionale. Partecipiamo con una delegazione di Assessori esterni cui va la gratitudine per l’impegno profuso in un’esperienza fatta di luci e di ombre. E noi facciamo carico delle une e delle altre perché non abbiamo consuetudine con la pratica di chi, partecipe di un collettivo, pretende di attribuire a se tutto ciò che di buono si fa e agli alleati tutti gli insuccessi, magari chiamandoli “nefandezze”. Voglio dirlo per richiamare alla memoria di tutti il sospetto che ci venne indirizzato di aver scelto una delegazione di esterni come forma di disimpegno politico.
Le recenti vicende, i giudizi ingiustamente presuntuosi dell’ultima direzione pidiessina, dimostrano quanto imprudente e ingiusto fosse quel sospetto.
Io concludo, cari amici, cosciente della parzialità delle mie valutazioni tanto insufficienti quanto grande è da parte mia – in questo giorno – il sentimento, la coscienza dei limiti della mia persona. Gli amici sanno che non ho mai contemplato un modello monocratico nel governo del partito. Oggi, più che mai, sento il biso¬gno di chiedervi un grande impegno perché il mio tentativo – se sarà – sia il nostro tentativo. Ci attendono mesi difficili, un futuro denso di appuntamenti, di sacrifici, di fatica ma anche di grandi opportunità.
Dobbiamo tutti insieme respingere la sirena della diserzione. Non possiamo premetterci, da cittadini e da cristiani di avere paura del futuro: questo è il tempo difficile e insieme affascinante di tornare a sognare una Sardegna e un’Italia come luogo di solidarietà rispettosa, luogo di civiltà e di progresso autentici, in cui un grande partito democratico, laico, popolare, di ispirazione cristiana possa impegnare i suoi valori e i suoi uomini al servizio di tutti.