Congresso nazionale PPI, 9 gennaio 1997
L’esuberanza di riflettori intorno alla scelta del segretario e un qualche eccesso di passione non dovrebbero indurci a tradire i nostri doveri: per una seria definizione della nostra politica.
Sono certo che tutti, per primi i candidati, sapranno sfuggire alle sirene di una esasperazione caricaturale delle posizioni, recitando una parte che altri hanno loro assegnato.
Quello che dobbiamo evitare, per un fondamentale rispetto verso noi stessi, è la pratica anchilosante del “surplace” politico. Non è giocando di interdizione che si apre una stagione fruttuosa per il nostro Partito e per quel processo di riforma della politica per la quale ci siamo impegnati.
Un eccesso di tattica può cancellare anche la memoria di grandi servizi resi in questi anni al nostro Partito.
In fondo è la prima volta che noi celebriamo un Congresso senza bisogno di definire la nostra identità per linee esterne, attraverso la scelta delle alleanze, in quel gioco di geometrie che ancora appassiona l’onorevole Buttiglione e i suoi non numerosi seguaci. E neppure dovremo misurarci, come altre volte, nella segnalazione dei contrari, di tutto ciò che non vogliamo essere.
È tempo di un grande sforzo politico per disegnare i contorni del nostro futuro, le nostre capacità di corrispondere ai bisogni e alle sfide che ci attendono di qui al 2001.
In un sistema bipolare, dentro l’alleanza del Centro Sinistra, con lealtà e con il massimo di responsabilità sosteniamo un governo che attua il nostro programma, quello che abbiamo proposto agli elettori, sotto la guida di un uomo che noi abbiamo proposto per primi come leader dell’Ulivo (e Dio sa cosa ha significato per noi quella proposta!) e che milita nel nostro gruppo parlamentare.
Io ho colto in questi mesi il disagio di molti amici popolari, insoddisfatti per la nostra scarsa visibilità all’interno della maggioranza. Appare eccessiva la nostra dedizione, il nostro impegno di lealtà, quello che molti definiscono “schiacciamento”.
Io penso che non dovremmo rassegnarci a questo disagio, né dovremmo assecondare lo stereotipo che di volta in volta ci viene disegnato addosso dalla grande stampa nazionale.
Dovremmo forse separare le nostre responsabilità per essere visibili? Dovremmo regolare i nostri comportamenti e le nostre scelte secondo il pendolo dei sondaggi e non secondo le nostre convinzioni? Io continuo a credere che l’interesse vero del nostro Partito debba coincidere con l’interesse generale del Paese, secondo un assunto che nella fase costituente del ‘94 abbiamo proposto come bandiera dei Popolari.
Penso che il Congresso debba esprimere un giudizio fortemente positivo sul percorso seguito dal Governo in questi sette mesi: il bilancio consuntivo è oggettivamente senza precedenti.
Il risanamento dei conti pubblici ha superato il giro di boa attraverso una manovra di straordinaria entità e di altrettanto straordinaria equità nella distribuzione dei pesi; la riduzione dell’inflazione è stata clamorosa; il rientro nello SME, nonostante gli inossidabili profeti di sventura del Polo, segna la premessa di un traguardo europeo sempre più vicino; i primi passi di una decisa riforma della Pubblica amministrazione, del sistema fiscale; le deleghe al governo per rendere possibile un eccezionale progetto di modernizzazione del Paese; l’azzeramento di oltre 90 decreti legge ricevuti in eredità dalla scorsa legislatura, ingombro insopportabile per qualunque maggioranza davvero interessata ad attuare il programma di governo.
Siamo arrivati alla vigilia dell’avvio della Bicamerale avendo rimosso il rischio di un intreccio perverso tra le scelte di governo e la riforma delle istituzioni.
Noi siamo stati la forza centrale di equilibrio e stabilità per l’esecutivo e per la maggioranza.
Solo un colpevole difetto di comunicazione può appannare il nostro contributo alla politica del Governo e, insieme, può assecondare una interpretazione della stessa come una ininterrotta teoria di tagli e tasse. La nuova segreteria del Partito dovrà impegnarsi molto sul terreno della comunicazione, vincendo consuetudini datate e pericolose ostentazioni di superbia in questo campo.
Ma ora il nostro Congresso deve confermare, senza esitazione, un sostegno chiaro e forte al Governo Prodi. Non esistono ragioni politiche per mettere in dubbio la nostra coerenza con gli impegni contratti davanti agli elettori il 21 Aprile. Chi, in questi giorni di immotivata drammatizzazione del confronto congressuale ha affacciato dubbi, riserve o sospetti intorno alla lealtà dei popolari non ha reso un buon servizio al partito.
Noi dobbiamo continuare con determinazione questa esperienza, non solo per i buoni risultati raggiunti, non solo perché il dividendo di un buon governo sarà generoso per i popolari, ma perché il successo di questo governo è la precondizione per dispiegare un’azione politica in profondità, per alimentare con le nostre ragioni il filo che lega la gente alle istituzioni, ritrovando il piacere e insieme il rischio di progettare il futuro.
Dobbiamo allargare il consenso dell’Ulivo partendo dal Centro. È questo un obiettivo diverso dall’idea di una qualche addizione parlamentare.
Io non ho chiara per intero l’iniziativa avviata nei giorni scorsi dall’onorevole Maccanico. Credo che sia mosso dalle migliori intenzioni, e tuttavia non vedo chiaro l’ordito e neppure l’orizzonte. Non mi convince la pretesa che assemblando sotto un’unica divisa tutti i generali del Centro venga fuori una politica di Centro. Non mi appassiona un nuovo assetto organizzativo degli eletti perché trovo più ambizioso, ma anche più utile, ricercare un contenuto, un’offerta politica che sia persuasiva per gli elettori del Centro. Potremo farlo se sapremo rinunciare alle pretese di una rendita giocata sull’evocazione di storie concluse, sulla pretesa di una rappresentanza di principi e interessi che nel nostro tempo hanno profondamente modificato caratteri e dislocazione.
Noi coltiviamo l’ambizione di una fase nuova della democrazia italiana in cui le forze in campo siano ordinate secondo le ragioni vere della politica, secondo l’offerta di governo che sapranno proporre intorno alle grandi questioni della nostra modernità: i problemi collegati ad una economia senza confini nel nostro pianeta, la divaricazione tra sviluppo e occupazione, la cultura della disuguaglianza, la concentrazione dei poteri di informazione, la pressione alla frontiera dei paesi ricchi di una crescente tensione migratoria, la competizione salariale tra Sud e Nord del mondo, il conflitto tra pressione fiscale e spesa pubblica, il nuovo drammatico conflitto tra generazioni. Queste e altre grandi questioni disegnano la nuova geografia della politica in Italia e in Europa. Su questo terreno si gioca la competizione per il consenso dell’area centrale del Paese.
Dobbiamo offrire un approdo temperato e rassicurante a quella fascia larghissima di italiani che vivono con ansia la transizione di questo tempo, che avvertono la suggestione di un futuro benessere e di libertà ma sentono la paura di una povertà sconosciuta.
Dobbiamo strappare il ceto medio dalla tentazione di un nuovo radicalismo egoista per offrire la speranza di una nuova qualità sociale nella quale il diritto di cittadinanza si allarghi e non si restringa.
Dobbiamo, prima e più di tutti, promuovere e guidare la riforma dello Stato sociale, partendo dalla sicurezza dei cittadini e dalla dignità delle persone.
Dobbiamo farlo noi, perché più di tutti abbiamo la consapevolezza che l’antinomia del nostro tempo non è tra riforma e rigore, tra riforma e cancellazione della conquista di civiltà più importante del XX secolo. E lo snodo decisivo riguarderà quella equazione di libertà e solidarietà che oggi dobbiamo ripensare, in un tempo nel quale costi e speranze crescenti si risposano alla delusione per la risposta dello Stato e mettono in discussione lo stesso valore della cittadinanza, del vincolo che alimenta il nostro patto comunitario. Al Nord e al Sud, un sentimento di cittadinanza incompiuta alimenta una nuova domanda politica degli esiti imprevedibili. Crescono suggestioni che frammentano e disperdono straordinarie energie intellettuali, economiche, politiche.
Noi dobbiamo costruire una proposta di ricomposizione, di nuova unità del Paese. Sappiamo che non può esistere una politica per il Mezzogiorno che non si accompagni e si integri in una politica generale per tutto il Paese, che sviluppi i caratteri di competitività e di tenuta; ma, insieme, sappiamo che non può esistere un destino virtuoso se si rinuncia nei fatti all’unità, se non si rinnovano le ragioni strutturali del dualismo italiano.
Ci riusciremo se sapremo vincere le tentazioni massimaliste, le sirene di un modernismo come trionfo dell’economia sulla politica.
L’anima popolare dell’Ulivo cresce se diventa capace di proporre una nuova sintesi centrata sulla dimensione umana della vita comunitaria, capace di comporre l’aspirazione al benessere con il valore della coesione sociale e con la difesa della libertà.
Per vincere questa sfida c’è bisogno di una grande unità politica dentro il nostro Partito. Ma l’unità non coincide con la paralisi, e dovremo abituarci a ritrovare la normalità di una sana competizione congressuale: il rinnovamento della dirigenza non può essere un motivo di trauma per noi che siamo reduci da fratture e lacerazioni tanto necessarie quanto dolorose.
Dobbiamo tutti ritrovare lo spirito, l’ambizione che accompagnò la costituente voluta da Martinazzoli. Da allora il nostro slancio è stato tante volte fermato: ora può dispiegarsi, con tutta la forza delle nostre convinzioni e della nostra ispirazione.
Il domani dei popolari non si trova nel fascino del prossimo segretario politico, ma nella nostra capacità di concorrere con coraggio alla riforma della politica.
Non possiamo permetterci, da cittadini e da cristiani, di avere paura del futuro: questo è ancora il tempo difficile e insieme affascinante di tornare a pensare l’Italia come un luogo di solidarietà rispettosa, di civiltà e di progresso veri, in cui un grande partito democratico, laico, popolare, di ispirazione cristiana possa impegnare i suoi valori e i suoi uomini al servizio del Paese.