Decidiamo insieme il nostro futuro

Discorso al Consiglio nazionale del Ppi, 09/07/1999

 

Se questo Consiglio Nazionale deve essere un referendum a favore o contro Franco Marini, io sono con Franco Marini.
Trovo sgradevole, ingenerosa e molto farisaica la corsa a prendere le distanze nei confronti di un segretario che abbiamo applaudito in tutta la lunga campagna elettorale. Io rispetto tutte le opinioni diverse, ma sono uno di quelli che hanno condiviso le scelte più importanti che il partito ha operato in questi anni. Per questo non condivido le conclusioni che Franco ci ha consegnato, dimettendosi.
Ma sarebbe drammatico se noi riducessimo la nostra riunione a questo referendum. Se pensassimo in questo modo di esorcizzare le questioni vere che la sconfitta elettorale ci ha segnalato. Sarebbe drammatico se ignorassimo il cambiamento di una società politicamente secolarizzata e infedele. Se continuassimo a sottovalutare il peso dell’informazione nelle scelte di voto, non solo in ragione del possesso e dell’accesso alle reti – che pure contano – ma soprattutto degli effetti di omologazione culturale, degli stili di vita e degli interessi che l’informazione produce.
Io penso che dovremmo affrontare con coraggio una profonda svolta nelle nostre scelte, trovando la forza di rinunciare all’inerzia e a quel complesso di automatismi che affondano le radici nel vissuto personale di ognuno di noi. Modificare la linea politica dopo una sconfitta elettorale fa parte della fisiologia: sarebbe innaturale il contrario.
La prima scelta: prendere atto che il voto di appartenenza, di fedeltà, è ormai marginale, che non esistono più “i nostri vecchi elettori” da rintracciare, che nel nostro tempo esistono solo nuovi elettori da conquistare, non per la nostra storia passata, non per i valori ai quali ci ispiriamo, se da questi non si trae l’idea di una prospettiva per il futuro, ma piuttosto per la capacità di disegnare traguardi, di evocare aspettative, di dare affidamento su un progetto persuasivo. Il nostro partito è vecchio, perché pretende di far coincidere identità e programma secondo una formula pensata negli Anni ’50, rivolta a una società che è profondamente cambiata.
Una scelta mi pare ineludibile: dobbiamo accettare per intero la logica del sistema maggioritario. Non possiamo più – perché viviamo dentro un sistema maggioritario, perché i prossimi appuntamenti, i più importanti, sono maggioritari – non possiamo più organizzare la nostra politica secondo uno schema proporzionale, in una permanente dissociazione. È come se giocassimo una partita di calcio seguendo le regole del basket.
Seconda questione: il Ppe. Ho seguito con un sentimento di sofferenza vera la riunione di Marbella. Diciamocelo con sincerità: lo sforzo – per ora riuscito – di evitare una nuova denominazione è un po’ deprimente. Quella sigla rappresenta un contenitore di politiche distanti e contraddittorie, nelle quali è difficile rintracciare le ragioni di De Gasperi e Schumann. È difficile perché le ragioni di De Gasperi e Schumann da sole non bastano più a definire i contenuti della politica del nostro tempo, non sono più sufficienti a generare una risposta univoca e coerente alle domande della società complessa dell’Anno 2000, non sono più capaci di generare un’offerta di governo riconoscibile nei paesi europei. Non esistono più le grandi famiglie del passato: ma solo le sopravvivenze lessicali.
Io non so se dovremo stare a lungo dentro il Ppe, ma so che dovremo valutarlo, che dovremo prima o poi aprire una discussione. Ma certamente trovo che sia anacronistico, frutto di inerzia culturale, pensare che la politica italiana debba cercare un approdo di ricomposizione nel nome dell’appartenenza al Ppe, nel nome dell’adesione a uno dei due supermercati delle correnti politiche europee. Dovremo trovare il modo – né originale né esclusivo – per costruire in Italia e in Europa sistemi di organizzazione politica capaci di aggiornare il nome e il merito della nostra offerta di governo alle sfide della società attuale.
Un’altra scelta: il nostro rapporto con il mondo cattolico, con il mondo che abbiamo pensato di dover rappresentare. La misura dei nostri consensi alle elezioni europee è in qualche modo una sentenza: questo mondo ha scelto di farsi rappresentare da altri, da tanti altri. Io non so, nel rapporto tra dare e avere, chi sia in credito, e non conta molto accertarlo; conta prendere atto che l’Italia è quella che è, gli italiani sono quelli che sono, e non quelli che noi vorremmo: realisticamente.
Vorrei essere chiaro: io sono certo che tutte le volte che ci troveremo a decidere sui temi che chiamano in campo valori e principi, non avremo mai un dubbio circa la nostra ispirazione. Ma ora è tempo di porci il problema se abbia senso la pretesa di organizzare un partito che traduce l’ispirazione religiosa in ragione sociale. E un altro interrogativo dovremmo porci: se il popolarismo, che è dimensione diversa rispetto all’ispirazione cristiana, possa essere compresso dentro un contenitore così angusto come un partito del 4 per cento. Un interrogativo che chiama in causa il nostro modo di stare nel centro sinistra.
La scelta di centro sinistra non è in discussione, ma l’alleanza vive un momento di difficoltà vera. Non solo perché il risultato elettorale ha segnato un dato negativo, ma perché il dibattito in Parlamento che si è svolto questa settimana non ha risolto le questioni aperte, e prima di tutto l’eccesso di frammentazione e di litigiosità interna che ha finito con lo stratificare una serie non modesta di differenze e incertezze programmatiche. Questa condizione rallenta e depotenzia l’azione di governo. E non diventa più facile uscire dalla crisi se il partito più grande della coalizione – o sarebbe giusto dire il meno piccolo – conserva la presunzione di essere il suggeritore delle parti altrui, di dettare il calendario e l’agenda delle scelte future; se pretende di sostituire i suoi alleati non solo e non tanto nelle responsabilità o nel potere, quanto e soprattutto nell’insediamento politico, in una tendenziale omologazione dell’Ulivo alla Cosa 3. Così non va bene; dobbiamo cambiare in profondità la struttura e il disegno dell’alleanza.
Per un centro sinistra che ritrovi l’anima di un progetto generale di cambiamento del paese, nel quale sia forte e sensibile il contributo, oltre a quello della sinistra, con pari forza e pari dignità anche di quell’area politica di riformismo moderato che non è solo cattolica, che non è solo popolare e che noi dovremmo concorrere ad aggregare dentro un nuovo soggetto politico. Senza fretta, senza semplificazioni frettolose, senza scorciatoie: occorre che tutti facciano, come noi, uno sforzo di ridiscussione e di apertura.
Il congresso può essere un punto d’arrivo di una svolta politica alla quale dobbiamo lavorare da subito, soprattutto se riprenderemo – da subito – a parlare dei problemi della gente, del lavoro, della sicurezza, della salute, del nostro modo di coniugare benessere economico e libertà. Su questi temi proviamo a misurarci con scelte coraggiose, liberandoci da tutti gli automatismi: anche nel rapporto con i sindacati. Non solo nelle scelte di merito per la soluzione dei problemi, ma anche per la ricerca di modelli e gruppi dirigenti. Mi pare difficile che la novità delle politica possa venire da organizzazioni che vivono gli stessi problemi di invecchiamento dei partiti, ma che hanno un meno di umiltà per rimettersi in discussione.
E quindi conta cominciare, guardando in avanti, senza consumare questa fase straordinaria in un censimento degli errori, dei ritardi o delle sviste. Non abbiamo il problema i rinnegare questi anni di comune fatica e di amicizia, ma abbiamo il dovere di costruire una nuova linea politica.
Possiamo coltivare nuove ambizioni, ritrovare un profilo alto dei nostri obiettivi e, insieme, ritrovare consensi e attenzioni. Abbiamo deciso insieme le cose giuste e meno giuste fatte negli ultimi anni: dovremmo avere la forza e la generosità di decidere insieme il nostro futuro.

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