Dopo la sconfitta del centro sinistra alle regionali e le dimissioni del governo D’Alema, nasce in pochi giorni un nuovo esecutivo guidato da Giuliano Amato. Il Polo invoca le elezioni, ma il presidente della Repubblica decide di dare vita a un governo che garantisca lo svolgimento dei referendum e completi il processo delle riforme istituzionali, per garantire la stabilità. La maggioranza indica a Ciampi il solo nome, dell’ex presidente ed ex ministro Amato. Berlusconi minaccia di sottrarre parlamentari all’Ulivo al momento del voto di fiducia. Ma il governo Amato avrà il via libera delle Camere con più consensi del previsto: 319 voti, nove in più del D’Alema bis.
Camera dei Deputati, 28.4.2000
Signor Presidente del Consiglio, le esprimo il sostegno dei Popolari per il suo governo: un sostegno convinto, non timido né incerto, perché contiene nel programma, nella struttura e nell’orizzonte politico caratteri di continuità con i governi che hanno fatto la storia di questa legislatura. Ma anche per la stima della sua persona, della sua competenza, per quella disponibilità manifestata nel discorso programmatico di coniugare le ragioni ideali con la concretezza del fare.
Noi ci presentiamo a questo appuntamento con la consapevolezza dei problemi che sono aperti nel paese, in questo Parlamento, nel sistema politico italiano. Sappiamo di non celebrare un rito scontato; non è, il voto che ci apprestiamo ad esprimere, un voto banale perché si è caricato di un significato straordinario nella vita politica e istituzionale dell’Italia. Noi sappiamo di essere in uno snodo che segnerà la vita di questa legislatura.
Abbiamo notizia di squallidi tentativi consumati in queste ore per attrarre parlamentari della maggioranza nel campo avverso con lusinghe e argomenti estranei alla sfera “spirituale”. Credo che non avranno successo. Ma voglio dire all’onorevole Berlusconi che questo comportamento non solo non risponde all’idea che abbiamo della pubblica moralità, ma non è neppure molto sportivo…
Pensiamo che il governo avrà la fiducia del Parlamento e vorremmo che non venisse sprecata l’opportunità di un anno di lavoro. Non abbiamo pensato al governo Amato come ad un governo purchessia, per allungare a tutti i costi la durata del nostro mandato. Non consideriamo una virtù quella dei governanti che «tirano a campare», e siamo consapevoli che esistono spazi e tempi per completare il percorso riformatore iniziato nella primavera del 1996.
Nel suo governo, Presidente Amato, figurano nuovi ministri, verso i quali nutriamo rispetto e fiducia, ma vogliamo dire con franchezza che respingiamo in modo categorico l’idea che in alcuni settori, quali la scuola, la sanità e l’agricoltura, il ricambio ministeriale possa significare un arretramento, un’inversione, un modo subdolo per cambiare la nostra politica. Non abbiamo mai pensato che le riforme, il cambiamento, la rimozione delle diseguaglianze e delle inefficienze possano avvenire senza reazioni, resistenze e qualche incomprensione. Ma questo è motivo per la riflessione e per la moderazione, non per la resa; sta qui la differenza fra populismo e riformismo. Noi consideriamo le riforme maturate in questi settori e, in particolare, in quello della sanità, un patrimonio di cui andiamo orgogliosi e che non intendiamo rinnegare. Vorrei dire al ministro Veronesi che saremo particolarmente disponibili a collaborare, ma anche particolarmente esigenti.
Anch’io vorrei esprimere la mia gratitudine a Massimo D’Alema, prima di tutto per la sua azione di governo, per il suo contributo a far crescere nel nostro paese ricchezza e giustizia sociale. La sua rinuncia alla guida della coalizione è stata una rinuncia non dovuta istituzionalmente, non consueta nella nostra storia parlamentare e non facile dal punto di vista umano e politico. Ma quello che noi abbiamo colto esserne il senso più vero è un altro: è stato un contributo generoso al futuro del centrosinistra, nello spirito di una coalizione che deve competere dentro un sistema bipolare e maggioritario; un contributo per accrescere la possibilità di successo nelle prossime elezioni politiche.
Ma la rinuncia di Massimo D’Alema sarebbe inutile se noi evitassimo una riflessione tanto sobria quanto rigorosa sulle ragioni di una sconfitta elettorale. Appare del tutto fuori posto il tentativo della destra di enfatizzare questo dato, conferendogli significato equivalente ad elezioni generali. Non siamo in un regime di democrazia calpestata. Berlusconi ha parlato di Italia commissariata: l’abitudine allo spettacolo fa dire a taluno cose indecenti…
Non le vogliamo passare in silenzio, perché l’accusa è grave. Ci siamo chiesti anche noi a chi è rivolta: è forse un giudizio ed una pressione sul Capo dello Stato che ha conferito l’incarico al Presidente Amato? Se è così, noi deploriamo un costume indegno e un comportamento politico inaccettabile; se così non è, se è solo il prodotto di superficialità e incultura dal punto di vista istituzionale, allora sentiamo che occorre riaffermare non solo la legittimità di questo Parlamento, ma la certezza delle regole fondamentali del nostro ordinamento.
Credo che uno come l’onorevole Berlusconi, che ritiene di possedere una specie di “predestinazione” per essere al più presto, ad ogni costo, presidente del Consiglio dovrebbe avere un po’ più di prudenza e di misura prima di usare un linguaggio sconosciuto nelle cancellerie europee. Gli italiani devono essere rassicurati che non esistono pericoli per la democrazia, almeno pericoli che vengono da questo Parlamento.
Altra cosa è il giudizio politico al quale siamo tenuti. Faremmo male – e non lo facciamo affatto – ad ignorare il contrasto fra una positiva esperienza di governo e gli orientamenti elettorali del 16 aprile. È un consuntivo ricco di successi, misurabili attraverso gli indicatori economico-finanziari, attraverso la profondità delle trasformazioni strutturali che hanno fatto crescere il nostro paese nella considerazione internazionale, che hanno reso competitivo il sistema Italia, che hanno ridotto squilibri e ritardi, che hanno diffuso i poteri dello Stato nelle regioni, avvicinandole ai cittadini.
Questo consuntivo non ha coinciso con il consenso elettorale manifestato il 16 aprile. Certo la propaganda della destra punta ad appannare la verità, ripetendo gli stessi slogan e luoghi comuni del 1994; ripete le stesse cose da sette anni, come se tutto fosse rimasto uguale. La fissità di questa politica, dei suoi argomenti, delle suggestioni evocate, in un gioco di mondo virtuale, serve a mascherare il carattere degli interessi, dei poteri e delle alleanze che di fatto rappresenta. Chi asseconda gli umori xenofobi presenti in Europa, chi coltiva un’idea proprietaria delle istituzioni, chi manifesta disprezzo per le idee dei suoi alleati, assumendo e modificando alleanze come si operano transazioni finanziarie, non è un moderato, non rappresenta il centro moderato, ma la nuova destra radicale. Per questo noi non potremo mai stare da quella parte.
Noi siamo la coalizione del buongoverno, ma il buongoverno non esaurisce la politica. Il tarlo del centrosinistra, il male affatto oscuro consiste nella frammentazione, in questa configurazione disgregata e multiforme. Veniamo da una lunga storia di scomposizioni senza ricomposizioni, di fratture che non risanano. Più cresce il bisogno di semplificazione e di efficienza, più il sistema dei partiti appare inadeguato, distaccato, in preda alla febbre di un consumo parossistico di parole, di manifesti, di accordi e di conflitti. La comunicazione di un evento qualche volta conta più dell’evento stesso, la virtualità diventa terreno di scontro, lasciando alla concretezza dei conflitti reali un’attenzione residuale nei media e negli stessi attori. La politica italiana è un passo indietro rispetto alla società.
Per invertire questa tendenza servono riforme serie nel segno di un bipolarismo maturo che renda il cittadino davvero arbitro nella scelta dei Governi: ne ha parlato il Presidente Amato. Ma io credo che sia un’illusione quella che affida in modo esclusivo alla riforma del sistema elettorale il superamento di questa fase. Occorre uno sforzo di volontà per uscire da questa condizione, per liberarci dall’ingombro insostenibile di sigle personali, per sottrarci al richiamo del passato e alle sirene della nostalgia, per guardare oltre, per nutrire l’ambizione di costruire la nuova politica. Dobbiamo cessare di essere, di sentirci e di farci sentire come una coalizione di «ex qualcosa»: di ex democristiani, di ex socialisti, di ex comunisti che suscitano l’avversione e il conflitto di tutti quanti sono stati anticomunisti, antisocialisti e antidemocristiani.
Noi dobbiamo scegliere di essere i riformisti del XXI secolo, che vogliono offrire all’Italia nuovi progetti e nuove speranze. I temi della sicurezza, dell’immigrazione, dei nuovi saperi, delle nuove libertà: questo è il terreno su cui potremo misurare le nuove faglie che separano gli schieramenti politici, che definiscono il campo nel quale spendere la nostra passione politica. Il passo in avanti consiste nella nuova lettura, meno ideologica e meno conservatrice, della società italiana, della nuova architettura sociale, del nuovo bisogno di libertà. Sarebbe un errore imperdonabile se noi cercassimo di corrispondere con un’offerta di governo rigida, preconfezionata, ideologica. Esiste anche in Italia una nuova domanda di cittadinanza che assume contorni ed accenti differenti nelle diverse aree territoriali, nel nord e nel sud e nelle diverse condizioni sociali. Dovremo trovare un linguaggio persuasivo per la nostra politica, capace di evitare la secessione sociale delle fasce forti del paese con lo stesso impegno con cui abbiamo lavorato, e ancora di più dovremo lavorare, per ridurre le forme di esclusione e di povertà.
Abbiamo un anno per ritrovare le forme, i modi, le regole e la guida politica per vincere la sfida. Quello che conta è conservare la rotta, e noi Popolari quella rotta non l’abbiamo perduta e non abbiamo intenzione di perderla.