Il “cantiere” dei riformisti è in piena attività. La coalizione di centro sinistra comincia il percorso verso il superamento della frammentazione e per un migliore assetto interno. Il Ppi organizza a Frascati un convegno programmatico a cui vengono invitati parlamentari e dirigenti di Democratici, Udeur e Rinnovamento italiano. Obiettivi: il rilancio della coalizione e il potenziamento del dialogo al centro dell’alleanza.
Una proposta per l’Italia che cambia. Seminario del PPI, Frascati, 22-23 giugno 2000
Abbiamo deciso questo incontro per un supplemento di riflessione sulle molte questioni irrisolte del nostro dibattito politico. Una riflessione meno condizionata dai tempi della vita parlamentare, ma non per questo impermeabile e indifferente al complesso di tensioni e inquietudini che accompagnano da tempo il nostro lavoro. E in queste settimane sono forse cresciuti interrogativi e contrasti circa il futuro del nostro partito, circa le questioni più generali che interrogano la politica italiana, a partire dal sistema generale di relazioni nelle quali si è articolata la nostra esperienza negli ultimi anni.
Abbiamo il dovere di parlarne con franchezza e con rispetto reciproco.
In fondo è naturale: noi siamo partecipi di una fase di cambiamenti nell’organizzazione dei rapporti economici, sociali, delle culture e degli stili di vita che investe il nostro paese e in vario modo tutto il mondo occidentale. Tutto cambia in modo così rapido e profondo che sarebbe innaturale se la politica non avvertisse incertezze e bisogno di adeguare analisi e comportamenti.
E’ un tempo di incertezze per tutti. Questo non ci solleva, ma ci stimola a vivere il nostro tempo senza complessi, con un supplemento di coraggio.
Una necessità: dobbiamo vincere l’inerzia e quel complesso di automatismi che affondano le radici nel vissuto personale di ognuno di noi. Rimettersi in discussione, interrogarsi, è segno di consapevolezza e, insieme, di speranza. Lo facciamo con qualche sofferenza da quando – con l’Assemblea costituente – Martinazzoli ha tracciato un sentiero, ha aperto una strada. In questi anni abbiamo vissuto e attraversato esperienze difficili. Non dobbiamo perdere la tensione verso il futuro che è stata la costante del nostro impegno. Sarebbe terribile se pensassimo che il nostro futuro si è già concluso. E tuttavia non possiamo prescindere dalla considerazione che intanto si è profondamente modificato il nostro rapporto con la società italiana, che insieme alla cifra del nostro consenso si è profondamente modificato lo scenario della politica e sono diversi e nuovi i fattori che condizionano le nostre scelte, le nostre decisioni, i nostri progetti. Ne richiamo solo quattro, con la consapevolezza della parzialità delle mie valutazioni.
Viviamo in una società politicamente secolarizzata e infedele. Le modificazioni profonde nell’organizzazione sociale hanno inciso in modo straordinario nel comportamento elettorale degli italiani. Gli italiani che hanno fedeltà per un partito sono una minoranza; esiste un’area politica vastissima che non sente alcuna appartenenza, che deciderà il suo orientamento sulla base di fattori complessi (interessi, percezione di tutele, suggestioni, fiducia nelle leadership nazionali e locali), o che accrescerà le cifre dell’astensione. Quest’area non è riconducibile alle categorie del passato. Non è il ceto medio, non sono gli elettori orfani della democrazia cristiana, non sono i cittadini del nord piuttosto che del sud, delle città piuttosto che delle realtà rurali. Ancor meno coincidono con un luogo geometrico. Forse è anche queste cose, ma non è solo queste cose. Ma se un dato può segnalare un qualche comune denominatore, questo sta forse più in un nuovo individualismo, segnato dal fattore indifferenza e disinteresse, dalla consapevolezza che esista uno spazio di gratificazione professionale o anche di vocazione sociale che può fare a meno della politica. E che dalla politica teme di essere contaminata. Per essere espliciti, credo che quest’area con l’idea del centro politico abbia niente a che fare.
Il peso dell’informazione nell’orientamento elettorale, non solo attraverso il possesso o l’accesso alle reti, ma soprattutto negli effetti di omologazione culturale, degli interessi, degli stili di vita che l’informazione produce.
La generalità dei partiti politici cosiddetti tradizionali attraversa un momento di crisi profonda. Le mediazioni politiche tradizionali hanno svolto il loro ruolo, contribuendo all’evoluzione della struttura organizzativa della società rispetto alla quale i partiti erano nati. Sono cambiate le realtà che sottendevano quelle culture e quindi si è alterato il meccanismo della rappresentanza politica veicolato da quei partiti. Non esiste un giorno, un anno che può essere indicato come il punto di cesura: il processo di cambiamento e di disaffezione ha attraversato un tempo lunghissimo. E tuttavia credo sia difficile trascurare questo dato e considerarlo marginale. Così come credo che sia difficile rimuovere la considerazione di un progressivo affermarsi del principio bipolare, della democrazia dell’alternanza incardinata su coalizioni concorrenti. Non è fatto recente. Penso alla profezia di Ruffilli che indicava questa via come “necessaria per stabilizzare la rivoluzione delle aspettative crescenti e la composizione di bisogni vecchi e nuovi nelle società delle comunicazioni di massa, attorno ad equilibri temporanei fra esigenze di ordine ed esigenze di cambiamento, sulla base della compatibilità tra forze e mezzi”. Era il 1984.
Non esistono più i nostri vecchi elettori da rintracciare. Esistono solo nuovi elettori da conquistare non per la nostra storia passata – anche quella recente –, non per i valori ai quali ci ispiriamo – se da questi non si trae l’idea di una prospettiva per il futuro –, ma piuttosto per la capacità di disegnare traguardi, di evocare aspettative, di dare affidamento su un progetto persuasivo. Non possiamo avere la pretesa di far coincidere identità e programma. Sono due categorie che si devono incontrare, ma non sono sovrapponibili: il programma, il punto visibile dell’offerta di governo, il quadro di riferimento progettuale da indicare ai cittadini può essere, e normalmente è, il luogo in cui convergono culture e tradizioni differenti, tanto plurali quanto plurale è il carattere della nostra società.
Quando pensiamo alla nostra rotta, a quella del partito, a quella personale di ognuno di noi, avvertiamo il desiderio di un’ancora sicura, di un sistema di valori che presieda alle nostre scelte.
E’ questo un esercizio che dobbiamo rinnovare, per depurare i nostri convincimenti dalle contaminazioni di una singola fase di storia. Dovremmo depurare i nostri riferimenti dalle convenienze o dai prodotti di mediazione che una lunga tradizione di alleanze ha necessariamente prodotto.
Mi sentirei di indicare alcuni punti di riferimento:
– la centralità della persona
– il pluralismo delle espressioni sociali
– la cultura delle autonomie
– il valore della tolleranza e della integrazione
la libertà dell’impresa coniugata con la giustizia sociale e con la solidarietà tra le generazioni.
Se sono questi i valori di fondo, bisognerebbe operare uno sforzo per incrociarli con le sfide del nostro tempo, con le questioni aperte in Italia e nel mondo.
Per passare dall’identità al progetto, senza inutili fughe ma senza la timidezza di una parte piccola e marginale. Per ricercare le nuove linee di faglia che segnano lo spartiacque nella sensibilità degli uomini e delle donne del 21° secolo.
Dove sta lo spartiacque? Cerchiamo, insieme, nel nostro confronto, di farne emergere i caratteri con tutta l’essenzialità di cui siamo capaci. Rinvio alle relazioni che seguiranno. Vi sono molti interrogativi legittimi, uno mi sembra più acuto ed esigente di risposta.
Ha senso invocare l’ispirazione cristiana per definire i caratteri di uno schieramento politico? Esistono idee e valori che marcano la civiltà del nostro tempo che sono largamente e diffusamente condivisi. Ma esistono scelte che riguardano l’idea della vita, il rapporto con la trascendenza, il senso del destino dell’umanità che attraversano in modo orizzontale schieramenti politici e non possono per la loro natura costituire in alcun modo l’essenza di un programma politico.
E’ questo un tema che dovremmo affrontare con molta sincerità. Le relazioni ci aiuteranno.
Esiste un’altra questione di attualità. Il tema di una possibile aggregazione delle componenti più affini del centro sinistra. Escludo che esista, in questo tempo, la prospettiva del partito unico del centro sinistra, e vorrei ricordare che nessuno di noi l’ha mai proposta: temo che venga talvolta evocata per esorcizzare un più serrato confronto sul nostro modo di vivere l’esperienza della coalizione. Sono convinto che la semplificazione della struttura del centro sinistra sia un obiettivo largamente condiviso. Non solo perché la frammentazione interna è oggettivamente dannosa, ma perché è ragionevole pensare che le sigle siano più numerose delle ragioni politiche.
Ma esistono questioni irrisolte, che vorrei consegnarvi. In queste settimane abbiamo confrontato le opinioni con Democratici, Udeur, Ri. Giovedì scorso abbiamo convenuto un documento di intenti per favorire una qualche evoluzione che oscilla, nella prospettiva, dal maggiore coordinamento dei gruppi parlamentari fino all’unificazione degli stessi e quindi alla nascita di un nuovo soggetto politico. Lo considero un passo positivo, ancorché condizionato da una disputa un po’ barocca sui nomi e sulle diverse aggettivazioni. I Democratici insistono per estendere l’accordo ai socialisti di Boselli e, con minore convinzione, ai Verdi. Mastella non nasconde le sue preferenze per un accordo limitato ai Popolari e a Rinnovamento italiano. Non è chiaro nelle intenzioni di tutti quale sia davvero il minimo comune denominatore invocato, la ragione di affinità dirimente.
La mia opinione nel merito può essere così riassunta:
Non la provenienza ex Dc: perché la diaspora è stata così grande da essere, la destinazione, coincidente con l’intero arco parlamentare; perché la Dc ha concluso la sua missione, avendola vinta, e come tutte le storie concluse non è replicabile; perché non possiamo inseguire il passato, organizzando il futuro come associazione di ex-qualcosa.
Non la costruzione di un aggregato che abbia come unico cemento un dato negativo, l’associazione dei non Ds. E’ l’espressione di una subalternità culturale nei confronti della sinistra e risponde più ad una esigenza logistica che politica.
Non il riferimento meccanico alla comune appartenenza al Ppe. Perché la configurazione del Ppe è tutt’altro che consolidata e perché questo criterio aprirebbe una comprensibile dissociazione nella vita politica italiana. Ma se noi, a ragione, contestiamo il criterio, per quanto ci riguarda, di obbligata sovrapposizione dello schieramento interno a quello europeo, per coerenza non dovremmo applicare lo stesso criterio ad altri.
Penso piuttosto alla prospettiva di concorrere, sulla base di giudizi condivisi, alla costruzione di un nuovo soggetto politico del riformismo italiano che sia il primo partito, la prima radice del nuovo Ulivo, quella più europea, più innovativa, più avanti nel desiderio di coniugare le nuove libertà, la nuova domanda di cittadinanza con la tradizione dei cattolici democratici e del miglior liberalismo italiano. Un soggetto che, partendo dai 5 valori fondamentali che ho prima richiamato, sappia costruire una nuova offerta politica alle sfide del nostro tempo. Un soggetto che si allea con la sinistra democratica per governare l’Italia nei prossimi anni, per battere la destra populista e xenofoba, ma soprattutto per guadagnare la fiducia di quanti oggi sono indifferenti alla politica ma non sanno di averne, in realtà, un gran bisogno. Per questo l’aggregazione non può essere solo un’addizione di sigle o di leadership: occorre coinvolgere uomini e donne che hanno comune sentire ma non trovano negli attuali partiti accoglienza e speranza.
Dovremmo riprendere, con più risolutezza, l’impegno di trasformazione della forma politica del nostro partito di cui abbiamo parlato prima dell’assemblea nazionale di Chianciano, e che abbiamo in larga parte disatteso.
Noi in Parlamento continueremo il laboratorio: cercando di intensificare il confronto sui contenuti, sulle scelte di merito. Ma spetta ai partiti assumere ora la guida di questo processo.
Il seminario che si apre è un’occasione per definire meglio i contorni della nostra proposta. Dobbiamo indicare gli obiettivi dello sviluppo che vogliamo, delle via che indichiamo per creare occupazione, per tutelare e allargare i diritti di cittadinanza, per affrontare senza superficialità e isterie il problema dell’immigrazione. Per vivere al meglio la nostra condizione di cittadini europei.
Le sfide in Europa si giocano intorno al tentativo di unificare le politiche fiscali, le politiche per regolare il mercato del lavoro e le politiche di tutela dei diritti sociali.
Dobbiamo stare dentro a queste sfide.
Non è sufficiente il risanamento dei conti pubblici e neppure il complesso di riforme fin qui attuate.
La scelta europea deve diventare in modo esplicito elemento di identità dell’economia reale italiana; occorre che la competitività del sistema paese diventi obiettivo consapevole di tutti gli italiani, perché sia evitata una separazione tra le grandi scelte enunciate (decise da governo e Parlamento) e le questioni reali della vita, dei conflitti, delle ambizioni della nostra quotidianità.
Un nuovo obiettivo nazionale da indicare al paese per un grande impegno collettivo.
Un grande patto sociale, da proporre a tutte le componenti del lavoro e della produzione, indicando obiettivi, procedure, risorse.
Per questo penso che la strada della coesione sociale sia elemento non rinunciabile per coniugare libertà e sviluppo. Passa di qua uno spartiacque decisivo tra concezioni alternative della vita democratica.
Siamo consapevoli delle pulsioni del nostro tempo, che alimentano inquietudine e disorientamento.
Sappiamo che esiste una parte non trascurabile della società sviluppata che ha la tentazione di limitare il pieno esercizio delle libertà pur di avere sicurezza, di subordinare il valore della solidarietà a quello di un accrescimento della propria capacità di consumo; di attenuare – sempre più – il sistema delle garanzie sociali in cambio di una forte riduzione della pressione fiscale.
Queste pulsioni del nostro tempo esistono e sono forti. La questione è se la politica le deve assecondare o piuttosto contrastare. Io penso che si debbano contrastare, indicando soluzioni differenti, offrendo una strada alternativa. E passa ancora una volta intorno a questo snodo lo spartiacque tra la via riformista e la via populista.
Noi abbiamo detto più di una cosa in proposito. Che dobbiamo impegnarci per una coraggiosa revisione dello stato sociale che si fondi su una più marcata e attiva funzione della società civile, delle formazioni sociali e delle comunità locali. In questo progetto, lo stato nazionale – liberato dal peso delle burocrazie piccolo gestionali – deve consolidare compiti di garanzia dei diritti costituzionali di eguaglianza per tutti nella fruizione dei servizi pubblici e di perequazione nella distribuzione delle risorse.
Dovremmo mettere al centro del nostro progetto sociale la famiglia come elemento primario della solidarietà, ma anche come sostegno ai giovani per superare gli ostacoli morali e materiali al matrimonio e alla procreazione. In questi anni, sulla spinta dei Popolari, sono state avviate nuove politiche familiari. Bisogna fare ancora molto di più. Ad esempio ampliare le agevolazioni per i mutui delle giovani coppie per la prima casa, così come le detrazioni fiscali per i figli. Calibrare meglio il redditometro per adeguare contributi e tariffe al reddito familiare. Abbiamo detto che la famiglia può diventare soggetto attivo di produzione di servizi di socialità, di ricchezza e di vitalità economica per la comunità e per il sistema territoriale. La famiglia può divenire, lo abbiamo sostenuto presentando un’importante proposta di legge alla Camera, nel suo insieme, un riconosciuto e valorizzato soggetto fiscale, protagonista di maggiore equità tributaria e di una più giusta distribuzione delle risorse tra le generazioni. Andiamo oltre la visione frammentata di cui soffre ancora la dimensione della famiglia nella considerazione politica e del nostro ordinamento. Recuperiamo un’idea globale della famiglia e del suo reddito, compresa la presenza degli anziani e dei figli piccoli, in età scolare e lavorativa, ristabilendone il peso economico nel sistema sociale: lo stato di protezione sociale non si deve esaurire nei compiti e nei servizi gestiti dal settore pubblico, spesso insidiato da possibili processi di burocratizzazione. Il no profit, il privato sociale, la cooperazione e il volontariato, devono accrescere il loro ruolo nelle politiche dei servizi alle persone.
Andiamo avanti, con decisione, sulla strada della riduzione della pressione fiscale. Da oggi al 2006, abbassiamola almeno di 4-6 punti percentuali, con un programma che dia spinta e benefici non solo alle imprese, ma anche alle famiglie; sostegni coerenti alla “natalità” delle imprese, incoraggiamenti concreti all’imprenditorialità dei giovani e alla loro successione nella conduzione delle aziende, attraverso efficaci e semplificati servizi, nonché misure fiscali e investimenti. Investiamo nuove forti risorse nella formazione per elevare la qualità della forza lavoro, ponendo le premesse per un rapporto equilibrato tra domanda e offerta di lavoro.
Questa può essere una traccia per trovare una risposta ai nostri interrogativi, per avvicinare l’approdo della nostra lunga transizione.