L’Unità, 26/03/2011
Il voto di astensione sul decreto attuativo del federalismo fiscale delle regioni è il prodotto di una decisione sofferta alla quale mi sono adeguato con più di una riserva.
Riconosco senza esitazione che il tenace contributo dell’opposizione e particolarmente del partito democratico ha significativamente modificato il testo proposto dal governo, riducendo molti degli effetti distorsivi in esso contenuti. E comprendo che abbia qualche fondamento l’idea che ogni negoziato deve mettere in conto un prezzo (in questo caso un voto non contrario). Potrei citare un lungo elenco di episodi parlamentari (anche rilevanti) con esito diverso. Ma ora non conta.
Penso però che sia doveroso, da parte mia, non tacere dubbi e riserve e manifestare una qualche riflessione critica.
Ho la sensazione che nel corso di questi mesi di discussione sui decreti attuativi della Legge 42 si sia in parte smarrita la visione generale, la valutazione del percorso fin qui compiuto, l’architettura che viene fuori dal dispiegarsi di norme che dovrebbero dare vita al federalismo fiscale. Giova ricordare quali erano gli obbiettivi di fondo della riforma del titolo quinto della costituzione e segnatamente dell’articolo che riconosce il diritto all’autonomia finanziaria di comuni, province, città metropolitane e regioni.
La riforma costituzionale così come la sua legge attuativa si proponeva di garantire alle autonomie locali risorse certe e definite in termini di base imponibile,trasferimenti,criteri di calcolo. E, insieme, porre fine al sistema di continua ricontrattazione e precarietà che da tempo caratterizza la finanza locale, riducendo da un lato la libertà e la responsabilità degli amministratori e dall’atro favorendo conoscenza e controllo da parte degli amministrati. Non è facile rintracciare i segni di un siffatto disegno. In realtà viene confermato e forse consolidato il sistema della determinazione a posteriori delle risorse. La compartecipazione all’IVA, l’aliquota di base per l’addizionale IRPEF, la determinazione reale di costi e fabbisogni standard, i meccanismi perequativi, la verifica delle compatibilità con il quadro generale della finanza pubblica saranno regolate in una qualche futura intesa tra rappresentanze di comuni e regioni, in tavoli o conferenze, decreti, regolamenti, ecc.
E’il trionfo del rinvio alle intese:quanto di più approssimativo barocco possa essere invocato nel nostro ordinamento.
Quello che si sta prefigurando e’ un federalismo dei sindacati delle autonomie piuttosto che un sistema di accrescimento delle forme di autogoverno.
Avevamo l’obbiettivo di ridurre le distanze economiche e sociali nel Paese: rischiamo di aggiungere nuove divisioni a quelle antiche, magari promuovendo una fiscalità di svantaggio in danno delle regioni meridionali.
Abbiamo ,tutti, assunto l’impegno a cancellare gli sprechi,a moralizzare e qualificare la spesa pubblica,a renderla trasparente nel rapporto tra amministratori e cittadini contribuenti.
Siamo davvero lontani da questo risultato. Come dall’obbiettivo di ridurre la pressione fiscale.
A fronte di una riduzione certa dei trasferimenti,di una compartecipazione in parte soggetta a verifiche appare ineludibile un ricorso certo all’aumento delle tasse da parte dei comuni, province e regioni: con l’attivazione di addizionali e di nuovi tributi. E infine la questione dei tagli. Gli enti locali vivono sotto la insopportabile ipoteca del taglio operato da Tremonti, nell’estate scorsa, per 5,5 mdi. La maggioranza dei comuni e delle regioni in queste condizioni non sono in grado di vivere. La “clausola dissolvente” approvata in zona cesarini, su proposta del PD, sposta all’autunno 2012 il momento della verità: se le condizioni della finanza pubblica consentiranno un ripristino…. altrimenti apriremo un tavolo! So bene che l’impresa era difficile e la materia complessa: ma forse occorreva dire in modo più esplicito che questo non è Federalismo di cui abbiamo bisogno, che Calderoli è il miglior allievo del principe di Salina, il Gattopardo.