(Huffington Post, 29 agosto 2013 – di Klaus Davi)
Parlando di Google, neanche il Terzo Reich con la sua Gestapo aveva a disposizione i dati che hanno loro.
Sono assolutamente incomparabili perché stiamo parlando di cifre che si esprimono in dimensioni di 10 elevato alla 21esima. Sono miliardi di informazioni che vengono raccolte in tutto il mondo, analizzate attraverso la rete fino ad arrivare a dei server che sono sparsi ovunque e il cui pieno controllo è nelle mani sostanzialmente di un piccolo oligopolio che le gestisce e che ha un potere enorme.
Quindi hanno più informazioni e potere, perché l’informazione vuol dire potere, oggi, rispetto agli anni ’30 e alle dittature?
Assolutamente sì. La differenza è che i regimi totalitari acquisivano delle informazioni su un piccolo numero di persone faticosamente e per mezzo della violenza. Oggi, senza fatica e senza violenza, vengono acquisite indiscriminatamente in un profilo le informazioni su chiunque. Allora erano veicolate dalle persone, qui invece c’è la visione generalizzata delle abitudini, degli stili di vita, degli interessi, di parte della nostra vita che è sempre più uno scambio ininterrotto, un flusso continuo d’informazioni che si è trasformato in un vero ecosistema; le parti della nostra esistenza sono disseminate e conservate nelle grandi banche dati dove viene formata una nuova identità digitale. È vero che questo riguarda certamente i regimi totalitari, ma non sono affatto sereno sapendo che regimi non totalitari come quello degli Stati Uniti possano acquisire indiscriminatamente tutte le informazioni sulla mia vita e sulla vita di tutti i cittadini perché, a quel punto, fra sicurezza e privacy rischia di rimetterci la libertà. C’è un punto di equilibrio che si sta rompendo o probabilmente si è già rotto e quindi va richiamato nella dimensione sovranazionale.
Chi ci difende da tanta voracità?
La ricerca dei siti, attraverso un motore di ricerca come Google, segnalerà gli interessi e le abitudini, tra cui anche l’orientamento sessuale oltre a quello politico. E, naturalmente, essendo detentori di questa massa di informazioni dei privati, che sono aziende o imprese, quest’ultime possono vendere informazioni commerciali, ma nulla ci impedisce di pensare che si possano vendere anche le informazioni sull’orientamento politico piuttosto che sessuale.
La legislazione americana è diversa?
I grandi internet provider americani hanno un regime di tutela dei dati personali assolutamente più basso rispetto a quello europeo e questo produce uno svantaggio competitivo per cui le imprese del Vecchio Continente non riescono a concorrere, essendo vincolate da un ordinamento più rigoroso. Se poi si aggiunge il fatto che, come abbiamo visto con la vicenda Prism, le agenzie di sicurezza americane hanno un accesso abbastanza indiscriminato alle banche dati degli internet provider, lei capisce che abbiamo un problema.
Potete escludere l’utilizzo di questi dati per azioni di dossieraggio?
Non lo possiamo escludere. Infatti il problema è che nel contesto digitale è evidente l’inadeguatezza del piano giuridico nazionale. Questo tema è al centro delle grandi sfide del nostro tempo: attorno ai big data ruotano le tensioni tra gli Stati, tra cui Cina e Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda la minaccia cibernetica e il controllo politico delle opposizioni nei regimi totalitari.
Sul tema delle intercettazioni, su cui lei ha fatto degli interventi molto giusti, alla fine la politica ha latitato e nel frattempo continuano a trapelare stralci che spesso non c’entrano niente con le indagini. Quali proposte ha in merito?
E’ un fenomeno molto grave che dura da tempo, causato da questo giornalismo di trascrizione che sempre più spesso vuole soddisfare una domanda voyeuristica piuttosto che essere di reale interesse pubblico. Naturalmente non si può generalizzare, ma, quando questo si verifica, si rischia di degradare la qualità stessa dell’informazione. Le proposte di soluzione di origine parlamentare in questi anni si sono succedute e hanno finora diviso molto gli schieramenti, ma senza arrivare a soluzioni. Noi abbiamo proposto all’Ordine dei Giornalisti, che l’ha finalmente accettato, di aggiornare il proprio codice deontologico e di condotta alle nuove tecnologie e confido sul fatto che gli operatori dell’informazione riescano a uscire da questo tunnel in cui la rincorsa del consumatore li ha cacciati.
Qualcuno accusa i social network di fare pubblicità occulta. Su questo cosa avete in serbo?
Recentemente abbiamo varato un provvedimento che precisa il livello di consenso necessario per le pubblicità commerciali, che è già di per sé una distorsione, dato che i social network non sono nati per fare pubblicità commerciale, ma per consentire la socializzazione dei cittadini. Contemporaneamente c’è invece un sistema più complesso che riguarda la proliferazione dei cosiddetti cookies, che sono dei dispositivi attraverso cui si profilano tutti i comportamenti degli utenti di internet. Alcuni di questi cookies servono al funzionamento della rete e non sono eliminabili, ma altri servono a profilare le abitudini e gli interessi degli utenti, e su questi c’è una direttiva europea che prevede debba essere espresso il consenso. L’essenziale è che gli utenti, sia gli adulti sia, a maggior ragione, i minori, siano consapevoli della macchina che stanno usando. Tutti si allarmano, ma nessuno fa niente.
Pitruzzella all’Huffington Post ha detto che stanno guardando con serio interesse l’iniziativa dell’Antitrust tedesco sui falsi mi piace di Facebook e che non esclude un procedimento in tal senso anche in Italia. Lo conferma?
La rete ha molti lati oscuri e questo è uno di quelli di fronte al quale l’utente è spesso disarmato perché la creazione di una reputazione falsa attraverso il mi piace produce un effetto distorsivo. Stiamo monitorando la situazione, ma tutto avviene così rapidamente che è difficile adeguare l’ordinamento. Oltretutto gli attori in campo hanno una dimensione globale e noi abbiamo piccoli Stati nazionali, neanche sempre coordinati.
Lei a suo tempo aveva fatto una proposta di legge sulla riforma della Rai. Che cosa sta succedendo nella tv pubblica?
Abbiamo avviato una prima minimale esperienza di collaborazione con la Rai sul tema del cyber-bullismo. Penso che il servizio pubblico su questi temi possa essere uno spazio molto importante in cui l’alleanza fra la Rai e il Garante porta ottimi risultati.