Dc Sardegna, settembre 1990
Il dibattito sulle Riforme istituzionali vive una stagione di grande e appassionato confronto Tuttavia il versante regionalista appare estraneo al dibattito politico e nel quadro generale delle proposte di riforma istituzionale il problema e marginale
A parte la incursione di Craxi a Pontida oppure altre ricorrenti iniziative funzionali e strumentali per contrastare localismi e leghe non viviamo un grande momento per il regionalismo. Esso segue la parabola del meridionalismo ed entrambi risultano sostanzialmente rarefatti non solo nel dibattito politico ma purtroppo anche nella coscienza popolare. Probabilmente questo declino è la spia di una più generale trasformazione che ha rimosso valori e miti, sostituendoli con nuovi modelli della cultura tecnologica. “L’esigenza di accorciare i tempi della decisione”, la mondializzazione dei grandi processi di trasformazione economica e politica, favoriscono i centralismi. Andiamo sempre più verso un sistema bipolare nell’esercizio del potere che si definisce in uno schema in cui l’attuazione delle grandi politiche passa attraverso concentrazione di poteri sia a livello nazionale che sovranazionale, mentre l’erogazione delle risorse e dei servizi viene attuata dagli enti locali sub-regionali.
La regione impallidisce nell’orizzonte istituzionale e subisce lo stesso processo involutivo patito dal meridionalismo.
Tutto ciò avviene perché esiste una comune radice culturale sia per il meridionalismo che per il regionalismo.
Il riconoscimento delle diversità di storia, di condizione economica, tradizioni, valori della convivenza, degli aspetti comunitari all’interno del nostro Paese rende persuasiva e fortemente motivata una politica di sostegno e di solidarietà verso i più deboli ma insieme rende ragione di un impianto istituzionale che non consente la rimozione delle peculiarità di storia e di cultura presenti.
Questo riconoscimento, questa disponibilità culturale si sono appannati. Dobbiamo comprendere le ragioni attraverso una riflessione sull’itinerario percorso dalle varie esperienze regionalistiche, sia quelle relative agli Statuti speciali sia quelle riferite agli statuti ordinari.
Voglio però fare una premessa. Il sentimento di distacco della società civile dal sistema politico, di larga insoddisfazione per il funzionamento della nostra democrazia, non può essere ricondotto o interpretato solo in chiave di funzionamento del sistema elettorale. E invece il dibattito si dispiega e si esalta solo intorno alla riforma del sistema elettorale. Certo il sistema elettorale è essenziale, non solo perché sollecita valutazioni di convenienza ma perché intrinsecamente connesso col funzionamento di una democrazia rappresentativa. E tuttavia le ragioni di insoddisfazione più larga investono 1’ ordÌnaria relazione fra cittadino e istituzioni, partono dalle difficoltà di portare la società dentro la regola, di favorire una partecipazione ordinaria del cittadino al sistema, di rendere reciproco il rapporto di interesse e di affezione fra istituzioni, regola, cittadino e persona. Fra i segnali di cambiamento della società moderna vi è la tendenza alla progressiva differenziazione dei soggetti, alla proliferazione di interessi, sensibilità, bisogni materiali e soprattutto non materiali.
Questa pluralità non può essere compressa nella concezione centralistica dello Stato, né rappresentata, riduttivamente, in uno schema semplificatorio del sistema politico come evocato da alcune opzioni presidenzialistiche. La domanda di riforma non si esaurisce nei sistema elettivo, ma investe il versante regionalista.
Opportunamente ci si può chiedere quale sia oggi lo stato delle Regioni. Quale consuntivo possiamo fare circa la loro funzione di strumenti tesi a rinnovare l’amministrazione pubblica con un nuovo patto fra stato e società.
Si è riprodotto un nuovo centralismo che riduce le Regioni e le sue funzioni ad un fatto di gestione, ad uno sportello di risorse trasferite. Si registra nell’esperienza sarda un eccesso di gestione mentre è carente l’indirizzo politico, di “alta politica legislativa e amministrativa”. Per converso si è attuata una politica legislativa nazionale che ha rafforzato la tendenza centralista. Si è esaltata la dimensione economica dell’Autonomia, in qualche modo esaurendola e depotenziandola nei contenuti ideali. Nelle regioni forti economicamente lo sviluppo procede indipendentemente dalla presenza dell’Istituto autonomistico; nelle regioni “deboli” i poteri sono inesistenti o insufficienti ad avviano ed a sostenerlo nel tempo.
Nella esaltazione della dimensione economica si sono persi di vista i nuovi bisogni, quelli più peculiari di zone sociali sottovalutate e di nuove fasce di emarginazione, ma anche della nuova domanda di qualità di vita. Il dubbio espresso sulla sopravvivenza delle ragioni della “specialità” nasce in parte dalla esasperazione della interpretazione economicista che abbiamo dato del regionalismo.
Nella ricerca degli strumenti per attuare una più forte autonomia è prevalsa la presunzione di autogoverno rispetto a quella del “concorso” con i poteri nazionali dello Stato, precipitando spesso in una conflittualità verbosa ed inconcludente.
Nella nostra concezione, invece, l’autonomia contribuisce, come istituzione rappresentativa generale, a migliorare le condizioni di cittadinanza della comunità regionale ma, – insieme – a partecipare alla vita nazionale in forme rispettose della nostra specificità ed identità regionale. Questo oggi non si verifica.
Non bisogna dimenticare tra le cause che hanno contribuito ad aggravare la crisi della politica quella che trent’anni fa’ Pigliaru individuò nella terribile equazione fra il livello di Autonomia e quello della classe politica regionale dirigente. E qui, bisognerebbe effettuare un coraggioso anche se doloroso esame di coscienza, perché non si esorcizza la crisi solo denunciandola, ma occorre contestualmente un grande sforzo di cambiamento di mentalità che ricuperi tutti i valori fondanti dell’impegno politico in cui il futuro della politica si intreccerà di nuovo con la dimensione dell’Autonomia.
Per ritrovare la fiducia dei cittadini intorno alle Istituzioni occorre un nuovo regionalismo che sia guidato da una bussola politica e che si concretizzi in precise linee di azione. Perciò è necessario uno sforzo serio di elaborazione politica e culturale per giungere ad una organica proposta che contenga anche un’offerta di Governo rispondente alla domanda sociale esplicita forte, strutturata proveniente dalla società sarda. Una proposta che possa comprendere e raccogliere la domanda latente, non codificata, spesso debole che sale a noi dalle classi più indifese ed emarginate.
L’Autonomia regionale perciò è uno snodo in cui può transitare questa nuova qualità della politica. In un lontano passato in Sardegna noi abbiamo vissuto un rapporto intenso con l’Autonomia. Essa è nata con grandi speranze; ha avvicinato i cittadini alla dimensione statuale, è divenuta naturalmente il terminale delle aspirazioni e delle delusioni dei sardi. Ma se vogliamo invertire la crisi dobbiamo riproporre con forza la nostra concezione di una autonomia matura, responsabile e unitaria.
Noi affidiamo al nostro Istituto regionale compiti che sono insieme di cambiamento e di conservazione.
Di cambiamento, perché attraverso la Regione, in concorso con i poteri dello Stato, possiamo rimuovere le ragioni di svantaggio connesse alla nostra storia di insularità e di periferia.
Di conservazione, perché attraverso l’Autonomia pensiamo sia possibile conservare la memoria del nostro passato, della nostra storia, della nostra cultura, la sensibilità, l’identità di popolo che rischiano l’estinzione travolti dagli interessi esterni e dall’incontrollato processo di omologazione.
Questa credo debba essere la nostra posizione nel dibattito che si apre sulle Riforme, questa la nuova ragione del nostro impegno autonomista.